Il repubblicano Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti all’inizio del Novecento, era solito fare riferimento alla sua carica con l’espressione “bully pulpit”, intendendo che il ruolo di capo dell’esecutivo federale gli forniva l’autorevolezza politica e gli strumenti istituzionali per promuovere la propria agenda legislativa e per imporsi sul Congresso.
Sorprende che, dopo le stragi di Uvalde e di Tulsa, l’attuale inquilino della Casa Bianca, Joe Biden, abbia voluto ridimensionare l’influenza potenziale dell’ufficio di presidente a tal punto da arrivare a implorare i legislatori di mettere al bando la vendita delle armi d’assalto o, in subordine, di portare da diciotto a ventuno anni l’età minima per poterle acquistare. Come ha dichiarato Manny Oliver – il padre di un ragazzo ucciso nel massacro della Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, Florida, il 14 febbraio 2018 – “ci aspettavamo un ordine esecutivo e tutto quello che abbiamo avuto è stata una preghiera presidenziale”.
L’atteggiamento di Biden parrebbe un’esplicita ammissione di impotenza da parte della Casa Bianca. Nel Congresso, infatti, almeno sulla carta, mancano i voti per varare una regolamentazione più stringente sulle armi. Il Partito Democratico dispone di una esigua maggioranza alla Camera, mentre al Senato è bloccato dall’ostruzionismo dei repubblicani, che da anni si sono erti a difensori del presunto diritto degli statunitensi di detenere fucili e pistole.

In realtà, è possibile che la posizione di Biden sia stata determinata da considerazioni che trascendono il problema, ancorché strutturale, della facilità di accesso legale alle armi da parte degli americani. A cinque mesi dalle elezioni di mid-term, l’avere lasciato l’iniziativa a un Congresso che non è nelle condizioni di approvare alcun significativo provvedimento in materia potrebbe essere stata una scelta tattica dettata dalla volontà di dimostrare all’opinione pubblica, giustamente sconvolta e indignata dalla moltiplicazione delle stragi e dal crescente numero di morti, l’urgente necessità di superare l’impasse legislativa attraverso il conferimento di una maggioranza schiacciante al Partito Democratico alla Camera e al Senato nelle consultazioni del prossimo novembre, in modo da cancellare l’opposizione dei repubblicani.
Esistono precedenti proprio in casa democratica. L’esempio più noto risale al 1948, quando il presidente Harry S. Truman, fortemente indietro nei sondaggi in vista delle elezioni per la Casa Bianca, convocò il Congresso in sessione straordinaria alla fine di luglio al solo scopo di rendere palese l’incapacità della maggioranza repubblicana, a causa di divisioni interne al partito, di approvare leggi per affrontare alcuni dei problemi della società statunitense nel secondo dopoguerra. Tra questi, la tutela dei diritti civili degli afroamericani, l’estensione del sistema della previdenza sociale e l’assistenza sanitaria. Denunciando l’80° Congresso come un “Congresso buono a nulla” nei restanti mesi della campagna elettorale, a novembre Truman riuscì a ottenere un secondo mandato alla presidenza e ad assicurare ai dem il controllo di Camera e Senato.
Se Biden intendesse davvero replicare la strategia di Truman dimostrerebbe ancora una volta la sua scaltrezza e il suo opportunismo politico, ma – con scarsa visione di statista – subordinerebbe la sicurezza degli statunitensi al tornaconto elettorale del Partito Democratico. Come suggerito da Oliver, infatti, la soluzione più rapida ed efficace consisterebbe nella promulgazione di un ordine esecutivo che recepisse quanto Biden si è limitato a raccomandare al Congresso. L’impasse legislativa e l’urgenza di scongiurare future stragi giustificherebbero il ricorso a questo strumento.
Del resto, lo stesso Biden ha fatto largo ricorso alla legiferazione per decreto all’inizio della propria amministrazione: ha firmato ventidue executive orders nella prima settimana della sua presidenza, di cui quasi la metà – nove – il giorno del suo insediamento, mentre nel complesso dei primi cento giorni gli ordini esecutivi sono stati ben quarantadue.
Un decreto presidenziale sulla regolamentazione delle armi verrebbe molto probabilmente bloccato da qualche giudice federale conservatore di un distretto giudiziario del Sud, la regione dove la cultura delle armi è più diffusa. Si aprirebbe così un contenzioso giudiziario che ben presto arriverebbe fino alla Corte Suprema. Questo esito, però, fornirebbe ulteriori opportunità a Biden.

Nel verdetto sul caso District of Columbia v. Heller del 2008 – esteso dall’ambito federale alla sfera statale e locale con la sentenza McDonald v. City of Chicago del 2010 – la Corte Suprema ha stabilito che detenere e portare le armi è un diritto individuale, ignorando di fatto la premessa del secondo emendamento (“essendo una milizia ben regolamentata necessaria per la sicurezza di uno Stato libero”) che lo configurerebbe invece come un diritto collettivo o, meglio, come la prerogativa degli Stati dell’Unione di mantenere una milizia armata.
Come è noto, la maggioranza degli attuali componenti della Corte Suprema, quelli scelti da presidenti repubblicani, è “originalista”. Ritiene, in altre parole, che la Costituzione e i suoi emendamenti debbano essere interpretati e applicati in base alle intenzioni di chi li aveva redatti all’epoca della loro stesura anziché alla luce delle successive trasformazioni della società statunitense. In questa direzione, per esempio, andrebbe la bozza di sentenza riguardante la controversia Mississippi v. Jackson Women’s Health Organization, diffusa da Politico alcune settimane fa, che porterebbe a cancellare il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza in quanto non contemplato dai padri costituenti alla fine del Settecento.
Invece, per quanto riguarda il controllo delle armi, l’originalismo potrebbe andare in soccorso dei sostenitori della regolamentazione e, quindi, potrebbe indurre a un rovesciamento della sentenza District of Columbia v. Heller. È, infatti, evidente che lo scopo della formulazione del secondo emendamento, ratificato nel 1791, non era quello di garantire alle persone il libero accesso alle armi, bensì quello di creare una milizia di popolo, in contrapposizione a un esercito nazionale permanente. Quest’ultimo era visto come un pericolo per la libertà dei neonati Stati Uniti a causa delle vessazioni e degli abusi compiuti dalle truppe britanniche alla vigilia e nel corso della guerra d’Indipendenza.
Non a caso, l’emendamento immediatamente successivo, il terzo, anch’esso approvato nel 1791, vieta l’acquartieramento dei militari nelle abitazioni private senza il consenso dei proprietari in tempo di pace, cioè a una delle misura punitive e oppressive a cui era ricorso Giorgio III d’Inghilterra per piegare la protesta dei coloni del Massachusetts contro il fiscalismo di Londra. Se, invece, la Corte Suprema annullasse l’ipotetico decreto presidenziale di Biden i giudici di nomina repubblicana dimostrerebbero la strumentalità politica dell’originalismo e l’uso pretestuoso di questa teoria in difesa delle posizioni conservatrici.
Insomma, Biden non avrebbe che da guadagnare da un proprio scatto di orgoglio che lo portasse a supplire, attraverso un ordine esecutivo, all’inazione del Congresso sulla regolamentazione delle armi, senza doversi ridurre a fare affidamento sulla legislazione dei singoli Stati. Questi, infatti, non sono tutti di orientamento progressista come quello di New York, che ha appena introdotto un palliativo, innalzando a ventuno anni l’età minima legale per comperare armi semiautomatiche.