Un viaggio politico-commerciale che si trasforma in un viaggio sulla sicurezza strategica del continente asiatico. È accaduto nel momento in cui il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha risposto a una domanda su che cosa farebbe la Casa Bianca in caso di aggressione militare della Cina a Taiwan. Per Biden, la risposta sarebbe una sola: un intervento militare diretto americano in difesa di Taiwan.
Sono seguite precisazioni della Casa Bianca e del Dipartimento di stato, del tipo “non c’è nulla di nuovo, è sempre stata questa la nostra linea” , oppure “è vero che abbiamo sottoscritto la linea della One China Policy, ma la sola idea che Taiwan possa essere presa con la forza non è certo la cosa più appropriata”. Resta il fatto che per una sola domanda lo scenario del viaggio in Asia di Biden è completamente cambiato.
E non poteva che essere così in un momento in cui il conflitto nato dalla illegittima aggressione russa i danni della Ucraina e il coinvolgimento di Stati Uniti ed Europa nel fornire assistenza militare a Kiev ha portato in primo piano tutti i giorni la questione guerra. E la Casa Bianca ha oggi tra i suoi obiettivi quello di non far saldare il rapporto tra Cina e Russia, che si è manifestato con l’atteggiamento benevolo di Pechino nel consiglio di sicurezza dell’ONU in favore di Mosca. E di mandare, ogni volta che è possibile un messaggio ai cinesi per sconsigliarli dal pensare ad azioni simili nei confronti di Taiwan.
Le parole di Biden su Cina e Taiwan hanno di fatto fatto passare in secondo piano quello che era il motivo del viaggio del presidente in Asia. Ovvero dare vita e forza a una associazione (IPEF) tra Paesi del continente asiatico e gli Stati Uniti per sviluppare più saldi rapporti economici, essere pronti a sfide come quella al Covid-19, far brillare di nuovo la stella appannata della globalizzazione, condire il tutto con il sale dello sviluppo compatibile. In poche parole, questo era un tentativo di rilancio della leadership americana nel continente asiatico.

Sara questa iniziativa a far sventolare più in alto la bandiera a stelle e strisce? Sono in molti a dubitarne. In primo luogo perché nel campo degli accordi economici, non si fa parola dell’abbattimento delle tariffe negli scambi commerciali: la bestia nera del Partito Repubblicano e dei sindacati americani sempre culturalmente propensi al protezionismo.
E poi l’IPEF sembra essere la bruttissima copia di quell’accordo chiamato TPP (Trans Pacific Partnership), ideato durante la seconda presidenza di Barack Obama e affondato dal suo successore Donald Trump appena arrivato alla Casa Bianca. Quell’accordo, se reso operativo, avrebbe cambiato il volto delle relazioni economiche e commerciali tra Usa e gran parte dei paesi asiatici, mettendo in un angolo la Cina che era stata tenuta fuori. Ed avrebbe spostato il barometro politico del continente verso l’occidente democratico.
La nuova iniziativa di Biden sull’IPEF risente del dibattito su tariffe doganali e protezionismo. E sembra essere partita con il piede sbagliato. A dimostrarlo un’altra iniziativa politica decisa dalla Casa Bianca a metà maggio. Quella di invitare a Washington tutti i leader dell’ASEAN, la storica associazione tra i Paesi asiatici per un summit straordinario. Era il modo di preparare l’attuale viaggio del presidente in Corea del Sud e Giappone.
Nell’agenda di quell’incontro sono stati lasciate fuori con una scelta consapevole tutte le questioni relative ai diritti umani, argomento che per alcuni paesi membri dell’ASEAN (Myanmar innanzitutto, ma anche Thailandia e Filippine) non possono essere ignorati da chi si candida a leader mondiale.
I commerci possono anche svilupparsi, ma senza il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo prima o poi le relazioni tra Stati possono solo peggiorare. E diventa difficile essere leader riconosciuti nel mondo.