Il 3 e 4 aprile bisogna festeggiare, soprattutto in funzione dell’attacco militare alla Ucraina, due ricorrenze che hanno dato la “svolta” definitiva alle democrazie occidentali e messo in condizione il mondo intero di uscire quasi indenne dalla “guerra fredda”.
Il 3 aprile del 1948 il Segretario di Stato George C. Marshall annunciò al mondo intero le linee generali di un piano di aiuti del governo degli Stati Uniti ai Paesi europei distrutti dalla guerra. Il piano sarebbe diventato lo European Recovery Program (ERP) passato alla storia come Piano Marshall. Il discorso con cui l’allora segretario di Stato statunitense annunciò questa rivoluzionaria decisione degli Stati Uniti d’America di avviare l’elaborazione e la conseguente attuazione di un piano di aiuti economico-finanziari per l’Europa fu, senza ombra di dubbio, uno dei momenti più importanti della storia della politica internazionale subito dopo la fine del secondo dopoguerra. L’idea fondante nasceva dalle conclusioni a cui era giunto l’economista Keynes nell’elaborazione del trattato di Versailles dove, senza essere ascoltato, predisse nel 1919 la nascita del “problema tedesco” avendogli applicato delle enormi sanzioni economiche. Si può oggi affermare con quasi assoluta certezza che questo piano pose le basi per esportare la democrazia in diversi Paesi della vecchia Europa dove erano nati regimi totalitari che avevano scatenato la Seconda guerra mondiale. Marshall affermò con forza, in quel discorso, che l’Europa avrebbe avuto bisogno, almeno per 3 o 4 anni, di ingenti ed importanti risorse e di aiuti da parte statunitense perché, senza di essi, sarebbero andati incontro ad un enorme deterioramento sociale, economico e politico foriero di nuovi enormi problemi. Probabilmente ben informato su quanto stava per nascere per la prima volta al mondo sul piano geopolitico il segretario di Stato si augurò che da esso sarebbe potuta scaturire non solo una nuova e più proficua epoca di stretta collaborazione tra le due sponde dell’Atlantico, ma anche una prima realizzazione di quei progetti europeisti finora caratterizzati quasi esclusivamente da vaghezze utopistiche che non si calavano nella concreta e dura prassi quotidiana.
Il 4 aprile del 1949 venne firmato a Washington DC, da 12 Paesi, il North Atlantic Treaty Organization, in sigla NATO, che successivamente divenne anche OTAN per accontentare le manie di grandeur della Francia con la dicitura Organisation du Traité de l’Atlantique Nord. Quella mattina gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Canada, la Francia, l’Italia, il Portogallo, i Paesi Bassi, il Belgio, il Lussemburgo, la Danimarca, l’Islanda e la Norvegia firmarono lo storico accordo che prevedeva, per la prima volta, il concetto di “difesa collettiva” riportato nell’ormai famoso articolo 5:
“Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica”.

In Italia l’11 marzo del 1949, il Consiglio dei ministri si pronunciò unanimemente per l’adesione, in via di massima, al Patto atlantico. Dietro il linguaggio un po’ oscuro c’era una precisa scelta, perseguita con fermezza da Alcide De Gasperi: quella, cioè, di inserire l’Italia, a pieno titolo, tra le democrazie occidentali in stretta alleanza con gli Stati Uniti. Il segnale della scelta di campo irreversibile l’aveva dato a Bruxelles già l’anno prima e precisamente il 30 novembre del 1948 al meeting delle Grandi conferenze Cattoliche in cui lo statista democristiano concluse che l’Italia era pronta ad imporsi quelle autolimitazioni di sovranità nazionale che l’avrebbero resa sicura e degna collaboratrice di un’Europa unita in libertà e democrazia. La limitata visione politica in quel periodo di Nenni fiancheggiarono ed appoggiarono l’ovvia e scontata opposizione di Togliatti che era legato a doppio filo a Mosca.
Successivamente nel 1952 entrarono nella Nato la Grecia e la Turchia e solo nel 1955 la Germania Ovest e la Spagna addirittura nel 1982 allorchè si liberò del franchismo. Nel 1999 all’indomani della scomparsa dell’Unione Sovietica la Polonia, la Rep. Ceca e l’Ungheria vi aderirono seguite, a ruota, nel 2004 dalla Bulgaria, dall’Estonia, dalla Lettonia, dalla Lituania, dalla Romania, dalla Slovacchia e dalla Slovenia sancendo in tal modo la definitiva estinzione del Patto di Varsavia e portando l’Alleanza alle porte della Federazione russa. A completare l’opera del totale e definitivo crollo sovietico ci pensarono l’Albania e la Croazia nel 2009, il Montenegro nel 2017 e, a conclusione, la Macedonia del Nord nel 2020.
A futura storica memoria va ricordato che il trattato è stato richiamato in occasione dell’attacco dell’11 settembre 2001 al World Trade Center e al Pentagono, in occasione della guerra al terrorismo.
In occasione dell’anniversario l’Occidente, proprio in queste settimane, si trova un grave problema con la guerra in Europa. Dovrà essere bravo e soprattutto molto lungimirante per garantire la continuità di crescita, prosperità e pace.