«La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi».
Questo scriveva von Clausewitz all’inizio dell’800, con lucido cinismo. Ma oggi è difficile capire quello che sta succedendo in Ucraina se non rovesciamo la frase, e diciamo dunque che «la guerra non è che la preparazione della politica con altri mezzi».
Putin non è un pazzo. La sua è una guerra che sin dall’inizio vuole (vorrebbe) essere preparazione di un processo politico diplomatico. Non frattura radicale ma strumento di un negoziato.
I segnali sono innumerevoli. Sin dall’inizio Putin e i suoi emissari non parlano di guerra ma di “operazione speciale”. Poi il bastone si alterna regolarmente con la carota. Bombe, ma corridoi umanitari. Corridoi umanitari ma chiusure improvvise. Attacchi a centrali nucleari, senza effetti devastanti. Bombardamenti, ma nessun tentativo (per il momento) di spianare il centro delle operazioni ucraine ed eliminare Zelens’kyj. Invasione armata ma insieme colloqui in corso. Minacce alla Nato e all’Europa e allo stesso tempo lunghe telefonate con Macron, contatti continui con gli americani, dialoghi col premier israeliano.
Un comportamento apparentemente bipolare insomma, che può essere estremamente rischioso: da un lato una guerra-lampo (o per dirla alla russa un’operazione speciale-lampo) dall’altro la rinuncia a molti degli strumenti che i Russi hanno e che la renderebbero efficace immediatamente, e il rischio di impantanarsi in una guerra territoriale, e soprattutto in un isolamento globale.
Perché l’obiettivo di Putin, il motivo delle sua illusoria schizofrenia, è proprio questo. Fare della guerra uno strumento diplomatico. Approdare a una ridefinizione dell’Ucraina (e della Crimea) che non sia una semplice annessione territoriale, ma sia approvata, e possibilmente entusiasticamente accolta non dagli ucraini ma dalla comunità internazionale.

Putin sta dunque camminando sul difficilissimo discrimine tra crudeltà e politica, crimine e dialogo. La guerra deve essere sufficientemente violenta e potente ma non deve chiudere gli spazi di dialogo: anzi – come sta facendo – li deve aprire, finché l’Occidente finirà per accogliere l’approvazione delle richieste russe non come una sconfitta, ma come un successo. Piegare alla pace l’apparente dragone (Putin appunto) che sputa fuoco. Non si può pagare un prezzo per questo?
Nella mente di Putin l’uso della guerra come preparazione della diplomazia credo che segua questa logica.
Naturalmente come ogni progetto umano non è detto che l’obiettivo sia raggiunto.
Ci può essere la reazione dell’Ucraina – e c’è stata – così come ci può essere la reazione dei Russi – e a tratti c’è. Ma credo che Putin abbia calcolato questi rischi, ne sia consapevole, e proceda non per pazzia o degenerazione senile ma per un lucido cinismo pari a quello di Von Clausewitz.
Con la differenza, certo, che Putin non può prevedere lo slittamento del suo piano su un crinale da cui è difficile risalire. Grazie anche alla comunicazione fluida e pervasiva della contemporaneità, è possibile che la guerra si riveli davvero una guerra. Il re è nudo dirà qualcuno. Il papa oggi l’ha detto con forza: “guerra”, e dunque crimine e dunque violenza. Il rischio insomma per Putin è di conquistare l’Ucraina e proprio per questo di perderla. La guerra non serve per conquistare l’Ucraina su un piano bellico ma su un piano diplomatico.
Ecco perché Kiev non è stata ancora assaltata. Gli spazi per la diplomazia sono anche spazi geografici da lasciare aperti. La spada di Damocle deve pendere sul capo dell’Ucraina ma possibilmente non ucciderla, perché l’Ucraina è in questo momento per Putin niente di più che l’ostaggio di un ricatto.