In quanti modi si può declinare il concetto di giustizia? Sicuramente molti, trattandosi di una nozione densa di significati e di grande spessore concettuale. Accade la stessa cosa per altri termini di analoga forza simbolica, per esempio libertà o uguaglianza, che per tale ragione sono posti a fondamento della Costituzione repubblicana. Sembrerebbe naturale che, al moltiplicarsi dei contenuti e al variare degli ambiti applicativi, corrisponda un fronte ampio di problematiche e quindi di interventi riformatori.
Sennonché, a seguire la politica e la cronaca – la discussione scientifica è altra – su una materia tanto incandescente come la giustizia, l’individuazione dei problemi, e quindi dei rimedi, non è sempre convincente. Qualcosa non torna, o sfugge all’attenzione. Di cosa si tratta esattamente? C’è uno “scarto” tra l’argomento generale (la riforma della giustizia), il tema proposto nell’occasione (cioè l’aspetto da affrontare), e infine la modifica suggerita. Come se ci fosse un eccesso, o un difetto, o un parlare d’altro. Solo suggestione?
Il raffronto fra queste dimensioni evidenzia un’interpretazione parziale, o artificiosa, che denota sovrapposizione di intenti non sempre coerenti con il miglioramento della giustizia. Così non si trovano soluzioni adeguate. Si identifica il tutto con una parte: un’operazione rischiosa perché il punto sollevato deve essere ben scelto e ponderato, avere un ruolo significativo. Serve la consapevolezza della complessità. In questo modo di procedere, l’esame delle questioni si mostra inappropriata, se non arbitraria o diretta a conseguire altri scopi.
Guardando alle vicende più recenti, la riforma della giustizia è fatta coincidere con oggetti (istituti processuali, modifiche ordinamentali, interventi istituzionali) sempre diversi, ed eterogenei, senza l’avvertenza che si tratta di uno dei possibili aspetti, da soppesare a fondo e coordinare ad altri. Anzi talvolta emerge la sicumera di chi ha finalmente in mano la soluzione magica, chissà perché sfuggita agli altri. Ma la magia non esiste, crederci è fuorviante.

La discussione sulla giustizia soffre in primo luogo di variabilità concettuale, semplificazione della complessità, eterogeneità dei fini. Prima del merito di questa o quella riforma servirebbe per un momento soffermarsi su questo punto, perché da ciò dipende tutto il resto, anche la bontà delle proposte, oltre alla valutazione degli effetti. Un buon approccio può fare la differenza.
Di recente, sull’onda della accorata sollecitazione del Presidente Mattarella, il governo – con l’intento di affrontare la «riforma della giustizia» – si è soffermato su due temi specifici: la modifica delle regole elettorali del Csm (l’organo di autogoverno dei magistrati) e la questione delle cosiddette “porte girevoli”, cioè il passaggio di magistrati dalla politica all’amministrazione e viceversa. Temi reali certamente, anche se sul primo va detto che non basta cambiare certe regole per ridurre il deplorevole potere delle correnti sulla progressione in carriera e sul secondo non si può prescindere dal fatto che la questione al momento riguarda quattro magistrati eletti.
Appena qualche settimana fa, il dibattito politico aveva identificato la stessa riforma della giustizia penale in altra questione, importante ma specifica, cioè la durata del processo, affrontata con l’introduzione di un istituto singolare, l’improcedibilità (cioè l’impossibilità di concludere il processo con una decisione di merito), ogni qual volta si superino determinati termini.
Di questo passo, piuttosto variabile, le problematiche più svariate sono state associate alla riforma della giustizia, per esempio le intercettazioni telefoniche, la prescrizione del reato. Vanno poi aggiunti i temi “sempre verdi”, che non possono mai mancare qualunque siano le questioni sollecitate dall’attualità, davvero bacchette magiche anzi miracolose, parliamo della responsabilità civile dei magistrati e della separazione delle carriere (tra pm e giudici), invocate a torto o ragione – magari senza conoscenza del significato o delle implicazioni – sino all’idea (peccato sia incostituzionale) di una apposita Corte (“alta”, per mascherarne la spregiudicatezza) con il compito di giudicare i magistrati che sbagliano.
Ma non siamo alla fine: tutta la materia è sovrastata ora dall’incandescente vicenda dei referendum, appena ammessi. Spicca un caleidoscopio di temi: ancora la separazione delle funzioni tra pm e giudici (come se, anche in questo campo, lo scambio culturale e professionale non migliorasse lo svolgimento di ciascun ruolo), la custodia cautelare (si propone che non vengano più arrestati criminali pericolosi per la società), l’incandidabilità al parlamento (caso Berlusconi) dovuta a condanne definitive per certi reati (va bene essere rappresentati da pregiudicati?).
Naturalmente, ciascuno di questi argomenti ha la sua importanza, merita di essere affrontato, e si possono (devono) trovare infinite possibilità di migliorarne l’impatto sul funzionamento della giustizia, ma questo è tutt’altro discorso. Appunto si dovrebbe aprire una riflessione di merito senza innalzare bandiere. Qui si evidenzia un modo raffazzonato e confusionario di procedere, che mescola le questioni senza esaminarle con cura, generando l’illusione di sciogliere un nodo cruciale della democrazia.
Il primo problema della giustizia è definirne l’oggetto, il campo nel quale muoversi, al riparo da strumentalizzazioni, interessi politici, ragioni contingenti: un approccio empirico, non ideologico. In quale senso? Non emerge qui la suggestione delle ideologie in senso tradizionale, sarebbe innaturale prima che incoerente in epoca post-moderna. Quanto la presenza di una mentalità “ideologica” nel ragionamento. Per questo vizio, l’idea prevale sulla realtà, non deriva dalla sua lettura, anzi si sovrappone ad essa, senza riuscire ad orientarla nel senso voluto.
L’esempio più eclatante, in tema di processo penale, è quello della cd riforma Cartabia, animata dall’intento lodevole di renderlo più rapido ed efficiente. Ebbene la fissazione di termini tassativi per lo svolgimento del processo, pena l’improcedibilità, si basa su un presupposto squisitamente ideologico. Sull’idea, astratta e consolatoria, che basti volere una cosa per ottenerla. In questo caso, che sia sufficiente fissare dei termini perché la realtà si adegui.
Ma il processo penale non sarà più veloce solo perché lo si prevede tale. Tanto più se i termini devono valere per la massa intera dei processi: sarà arduo rispettarli sempre e tutti. La ragione per la quale i processi durano scandalosamente a lungo non è la mancanza di un termine che lo esiga (né ovviamente la mancanza di volontà degli operatori). Dipende da un insieme di fattori (anche sintetizzarli è superficiale), che sono organizzativi, quanto normativi e comportamentali. Cause diverse, molteplici, sedimentate nel tempo e radicate in un tessuto storicamente disfunzionale. Va bene affrontarne anche solo una alla volta, ma non può mancare razionalità nel metodo.
Anche il più recente intervento (Csm e porte girevoli), come il precedente del 5Stelle Bonafede, rischia di essere inadeguato pur se utile e necessario. A causa della sommarietà dell’approccio sfugge che il potere deleterio delle correnti non è facilmente contrastabile senza un rinnovamento nella formazione dei magistrati, con modifiche nell’accesso alla professione (secondo un più alto livello di qualità) e nella progressione in carriera (in base a merito e capacità, da valorizzare con trasparenza).
Quando si parla di credibilità della magistratura si omette troppo spesso di considerare che il problema ha sempre più facce. Una volta detto delle molteplici riforme che possono riguardare i comportamenti dei magistrati, va anche osservato quanto riguarda altre componenti sociali, a cominciare proprio dalla politica, che troppo spesso si sottrare alla sua responsabilità.
Mentre i magistrati coinvolti nel famoso dopocena all’hotel Champagne di Roma, fissato per discutere di nomine importanti, sono stati tutti puniti da quello stesso Csm che ci si accinge a cambiare (uno, il mitico Palamara, addirittura con la destituzione), la politica è latitante nei confronti dei propri esponenti, in particolare verso quei parlamentari rimasti coinvolti nello scandalo. Evidentemente, quel comportamento intromissivo non è parso altrettanto disdicevole. Non solo agli interessati, ma, verrebbe da dire, anche all’opinione pubblica, che non sembra averne avvertito la pericolosità.
A trenta anni da Mani pulite è rimasto irrisolto il nodo tra politica e giustizia e, in questo vuoto, gli scandali che hanno investito la magistratura, reali e assai gravi, si sono però amplificati, trovando terreno di coltura, ragioni di espansione, con effetti devastanti sul sistema. Peccato che il discredito, si sia esteso alle istituzioni stesse, creando sfiducia e disorientamento.
Ha messo radici, ormai molto forti, in politica e nella vita sociale, un doppio metro di valutazione: per noi o la nostra parte c’è sempre una giustificazione; per gli altri usiamo la lente d’ingrandimento, così severa, implacabile, che nessuno ne esce indenne. In ogni caso, il vizio di fondo è un’idea pessima, la giustizia a senso unico, quella che va bene quando mi è favorevole, è sbagliata se mi danneggia. A prescindere da quel che è giusto. Con questo metro, per il mutare degli eventi, arriva sempre il momento in cui chiunque avrà motivo di doglianza.
Esemplare a questo proposito la lezione di Mani pulite e delle ragioni per le quali la stagione si è conclusa: non perché fosse arrivata troppo in alto, ma perché aveva cominciato a scendere in basso, a lambire la quotidianità, i comportamenti spiccioli, forse la “normalità” di tanti. La constatazione amara è che, nel paese tutto, esiste un forte scollamento tra legge e comportamenti generalizzati, e manca la mediazione della politica.
Anzi, da questo versante, l’insofferenza ha trovato nella politica slancio e propulsione: si è manifestata in occasione di troppe indagini, determinando un meccanismo diretto a limitare l’azione della magistratura e a contenerne i risultati. Ecco le leggi ad personam, gli interventi sulla prescrizione, le modifiche in corso d’opera che hanno ridimensionato tanti reati. Dietro la motivazione di eliminare presunti eccessi o errori reali, è emersa la refrattarietà alle regole, uguali sì, ma non per tutti.
È l’osservanza delle leggi, ovvero il principio di legalità, il punto critico dal quale ripartire sia nella società che nella politica, per la valutazione delle disfunzioni che caratterizzano la giustizia e per costruire riforme adeguate. Ma quella intuizione, se non ha radice salda nella società, è ben difficile che ispiri la condotta di chi dovrebbe rappresentarla. Ammesso che ci si possa esprimere così, bisognerebbe finalmente, come punto di partenza, ripristinare le «regole del gioco».