È una Kamala Harris amareggiata quella che esce dalle pagine del New York Times. Frustrata da un ruolo che le sta stretto e da un Joe Biden che ha avuto bisogno di lei per vincere le elezioni ma che ora, nel governare, la tiene in panchina.
La vicepresidente si è confidata con gli alleati sulle sue difficoltà nel gestire un portafoglio di compiti particolarmente difficili e divisivi, dai diritti di voto, all’immigrazione, materia sulla quale più volte ha attirato su di sé le critiche dell’opinione pubblica democratica. Kamala si è sfogata anche sulla copertura mediatica ricevuta: sarebbe stata diversa, dice di lei, se al suo posto fosse seduto uno dei suoi 48 predecessori, tutti uomini e bianchi.
Anche nel partito il malumore è ben presente per il ruolo in cui è stata messa la donna che, prima delle elezioni, sembrava destinata a prendere in mano il paese al fianco di Biden. “La complessità dei dossier che le sono stati affidati avrebbe dovuto spingere la Casa Bianca a difenderla in modo più aggressivo”, sostiene la deputata Karen Bass.
Harris ha cercato i consigli di altre donne da quando è arrivata a Washington, anche dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton, che si è subito messa in mezzo. “C’è un doppio standard usato nel giudicarla – ha dichiarato – come lo era per me”.
Da alcuni dei suoi alleati, poi, la stoccata più dura. Molti ritengono che Harris sia considerata come un ripiego e non come la vera erede di Biden.