I primi 15 spunti sulla situazione in Afghanistan sono stati pubblicati qui.
16) Le scene dove le madri afgane affidano i loro bambini a sconosciuti militari occidentali pur di salvarli: sono le stesse negli anni ’40 del secolo scorso, quando altre madri disperate affidavano i loro piccoli a sconosciuti, prima di essere avviate nei campi di sterminio nazisti, sperando così di salvarli.
17) Non sono moderati, i “nuovi” Taliban. Sono “solo” diversi: sanno usare gli strumenti della comunicazione, come i tagliagole dell’Isis. Sono “moderni”, fanatici e pragmatici insieme. Dicono chiaramente quello che sono, e quello che vogliono fare: non vogliono la democrazia, ma la sharia. Sono anche più pericolosi dei loro “padri”.
18) Più d’uno osserva che i nuovi Taliban padroneggiano e non demonizzano strumenti sofisticati di comunicazione. Ma già al-Qaeda e l’Isis facevano convivere islam retrogrado e oscurantista con modernissima tecnologia. Imparano alla svelta. Quello che continua a stupire è che gli USA e gli occidentali non sappiano fare buon uso di strumenti che pure hanno inventato.
19) Vedi filmati di fortuna che mostrano le forze speciali dei Taliban: aprono il fuoco per trattenere la folla all’aeroporto di Kabul. Vedi che sparano per impedire alle persone che vogliono lasciare il paese, di entrare nell’aeroporto. Vedi anche tanti bambini. Stuart Ramsay, corrispondente a Kabul della britannica “Sky News”, racconta che ogni giornata, per quanto riguarda la situazione all’aeroporto di Kabul, è peggiore della precedente. “Al Jazeera” parla di sparatorie ricorrenti intorno allo scalo…Poi arrivano i telegiornali occidentali, che trasmettono senza ritegno e senza pudore, compiaciuti copia-incolla del teatrino di politicanti da strapazzo che ti sommergono coi loro insulsi pio-pio, bla-bla, bau-bau.
20) Proprio nelle ore in cui tutti criticano e polemizzano con il presidente degli Stati Uniti, mi sento di dire: “Grazie, Joe Biden”. Il lettore a questo punto si sentirà autorizzato a sospettare che il caldo mi gioca un pessimo scherzo. Non è così. Non c’è il minimo dubbio che la ritirata dall’Afghanistan delle truppe USA si svolga nel peggiore dei modi. Non c’è dubbio che sul banco dell’accusa, oltre i governi, ci siano le intelligence americane e dei paesi NATO: non hanno saputo vedere, pre/vedere, capire, avvertire per tempo qual è, e qual era, la situazione in quel tormentato paese. Non c’è neppure da dubitare che sia colpa grave e imperdonabile che non sia stato predisposto alcun piano, né A, né B. né C. Allora perché mai ringraziare l’amministrazione Biden, per la conclamata, indiscutibile, inescusabile insipienza? Consapevole di essere sul filo del paradosso, azzardo una simulazione. Si faccia conto che tutto invece di consumarsi nel modo in cui sappiamo, avesse seguito i binari auspicati. Azzardiamo un ritiro degli americani e dei paesi NATO secondo le tabelle e i tempi redatti nelle lontane e sicure centrali del comando i in Occidente…Dunque, le truppe sul campo ordinatamente si imbarcano, e ritornano in patria; con loro qualche migliaia di afgani che in questi vent’anni hanno collaborato a vario titolo con gli occidentali. Supponiamo che scaduti i fatidici novanta giorni, i Taliban prendano il potere in “tranquillità”. Ecco: che cosa sarebbe cambiato? Quale diverso destino per le donne afgane che non sono riuscite a espatriare? Quale futuro per le loro figliolette? I Taliban al novantunesimo giorno non avrebbero – come fanno oggi – rastrellato casa per casa, imposto il burqa e la Sharia, non avrebbero proclamato il regime islamico? Quello che accade, non sarebbe comunque accaduto, ma a distanza di novanta giorni? Sarebbe accaduto. Nulla sarebbe mutato, unica differenza: nell’indifferenza dei più e il silenzio dei tanti; il mondo non avrebbe visto, come oggi invece vede; tutto si sarebbe consumato lontano dagli occhi e lontano dal cuore. Oggi – è poco, certo – almeno si sa; nessuno può dire: non ho visto, non ho sentito, non so. Le immagini di quelle povere madri che si strappano dal petto i loro figlioletti e li affidano a militari sconosciuti di paesi (così simili alle donne ebree che affidavano a sconosciuti i loro figli prima di essere avviate nei lager dei nazisti), le abbiamo sotto agli occhi. Se dimenticheremo, se resteremo inerti, silenziosi, indifferenti, sarà solo e unicamente colpa nostra. Perché noi ora sappiamo. Se le cose fossero andate come Biden aveva promesso e auspicato, non avremmo mai visto quelle immagini, ascoltato quelle drammatiche testimonianze. Esattamente come ignoriamo i mille drammi e le mille tragedie che si consumano in Africa, in molte parti dell’Asia, e perfino in qualche paese europeo. Per questo, con amarezza e molta vergogna, oggi dico: grazie, presidente Biden.
21) Sempre a proposito del presidente Biden. Al punto in cui siamo un “amerikano” con quattro K come chi scrive, perché mai si dovrebbe fidare delle promesse e delle assicurazioni degli Stati Uniti? E’ accaduto con i Montagnard, due volte con i Curdi, ora gli afgani… Suonano cupe le riflessioni del generale Giorgio Battisti comandante della prima missione del contingente italiano a Herat: “Se io fossi un governante di Taiwan, comincerei a dubitare dell’appoggio completo da parte degli Stati Uniti“. Biden è l’ultimo anello di una catena: Bill Clinton, Barack Obama, Donald Trump. Questo non lo giustifica. Lo mette in compagnia di “potenti” che si sono assunti la responsabilità di far uscire di scena gli Stati Uniti, quello che Furio Colombo definisce “il compito di guidare, all’interno di un campo di amicizie, affinità, condivisione di valori che erano forti, motivate da un passato comune, erano storia”. Detta in modo più crudo: un tradimento, non solo una fuga e una dimissione. Lasciare Kabul come si lascia non è solo una vergogna. E’ dire a un’opinione pubblica che ha sempre guardato agli Stati Uniti con fiducia, anche nei momenti più bui: vi siete sbagliati: “Biden ha spento la luce”.
22) Tom Amenta, americano di origine italiana (terza generazione), è un reduce dell’Afghanistan. Ha quarant’anni, viveva a Chicago, ora si è trasferito con la famiglia in Nebraska. Era inquadrato nel 75° reggimento Rangers. In Afghanistan c’è stato due volte; la sua esperienza è condensata in “The Twenty Tears War”, scritto con il commilitone Dan Blakeley. E’ la storia, corredata da fotografie degne della Magnum, di 71 veterani: chi sono, cosa hanno fatto e dove sono ora. Amenta non nasconde la sua indignazione: “Non volevamo una guerra eterna, né rischiare per cose che non capiamo più, giacché da anni la politica americana fa scelte sulla nostra pelle che non ci spiega. Ma non così. La ritirata leva senso a ciò per cui abbiamo rischiato e tanti sono morti. E a quanto promesso agli afghani parlando di verità e libertà. Non ci si ritira lasciando connazionali e compagni indietro. È la prima regola militare e ogni governo funzionale lo sa. È una catastrofe morale oltre che pratica. Chi ci crederà più? E i nostri soldati dove troveranno nuove motivazioni per combattere?”. Trova penosa l’accusa del presidente Biden agli afghani di non essersi battuti: “Solo fra 2014 e 2020 sono morti 45mila afghani combattendo per il loro Paese. Non c’è stata debolezza o mancanza di volontà: noi gli abbiamo levato logistica, supporto e copertura. Non avevano le risorse per combattere e certi strumenti nelle loro mani erano troppo sofisticati: manovrati fin qui da contractors. Cosa dovevano fare, tirarli ai talebani? Kabul, lo diceva pure la nostra intelligente, sarebbe caduta comunque in 3 mesi”. Amenta e altri suoi commilitoni hanno creato una sorta di network dove segnalano nomi e azioni di chi ha lavorato e collaborato con loro: “Al Dipartimento di Stato diciamo “garantiamo noi per loro”. Devono facilitare le operazioni di visto. Ci hanno salvato la vita Ora tocca a noi”.
23) Al di là della tragedia umanitaria, la debacle politica. Il presidente Biden sostiene che l’Afghanistan non rientra tra gli interessi nazionali degli Stati Uniti. Affermazione miope e che rivela incapacità di intendere. Contrasta e stride in modo clamoroso con quell’ “America Is Back” del 20 giugno scorso in occasione del G-7. Già allora molti osservatori accolsero quell’affermazione con scetticismo. Uno per tutti: Hans Kundnani, ricercatore senior del Programma europeo presso Chatham House, un think tank di affari internazionali a Londra. “Una promessa vuota”, sentenziò. E poi: “Gli europei non considerano gli Stati Uniti un partner particolarmente affidabile o coerente”. Cosa dovrebbero fare gli Stati Uniti (e probabilmente non faranno): tornare sul palcoscenico internazionale come potenza leader occidentale, prima tra uguali, in una rete globale di democrazie. Il rancore verso gli americani per i comportamenti tenuti in varie parti del mondo, inclusa quest’ultima tragedia, non dovrebbe impedire ai democratici (con la d minuscola) di rendersi conto che qualsiasi alternativa a questo scenario è peggiore.
24) C’è chi si domanda perché la comunità islamica internazionale non batte ciglio di fronte alla tragedia afgana. Giusta domanda. Ma potrebbero molti islamici non fanatici e terroristi chiederlo a noi: perché nessuna lacrima, nessuna commozione da parte nostra, quando i terroristi islamici colpivano i loro stessi correligionari? E accaduto in molte riunioni di redazione a cui ho partecipato: se l’attentato aveva come vittime degli occidentali una quantità di articoli, come è giusto. Al contrario se le vittime sono islamici, anche se decine e decine, quando va bene, una notizia-trafiletto. Miope comportamento: sarebbe saggio chiedere solidarietà, ma al tempo stesso dimostrarla. Un islamico non fanatico più facilmente potrebbe essere a noi vicino, se anche noi fossimo partecipi del suo dolore quando viene colpito. Si può cominciare da qui. E, prima di finire, che non solo nell’Afghanistan dei Taliban accadono cose orribili, ma anche in Arabia Saudita dove qualcuno vede un rinascimento arabo…
25) A chi ora auspica l’apertura di corridoi umanitari: una volta “aperti”, andranno anche difesi, garantiti. Da chi? Come? Giusto per saperlo.
26) Tra le tante notizie terribili della precipitosa e rovinosa fuga occidentale da Kabul la storia, piccola ma testimonianza di una resistenza che va al di là del “ragionevole”. Zebulov Simantov, l’ultimo ebreo dell’Afghanistan, è vivo ed è apparso in un reportage della televisione indiana “WION”. Dice di non aver alcuna intenzione di lasciare l’Afghanistan, non di sua volontà, almeno: “I talebani di oggi sono come quelli di vent’anni fa, quelli che mi hanno frustato coi cavi elettrici. Mi hanno messo in prigione quattro volte per cercare di convertirmi, ma io non ho ceduto e non intendo cedere. E non voglio lasciare che nessuno mi cacci via da casa mia.” Simantov ha 62 anni, commercia in tappeti, da 15 regge da solo quel che resta della millenaria comunità ebraica dell’Afghanistan e di una cadente sinagoga nella Flower Street di Kabul, dentro una casa dove una volta vivevano quindici famiglie. Per un qualche anno Simantov ha condiviso l’eredità dell’ebraismo afgano con Yitzhak Levy, proveniente come lui da Herat, la seconda città dell’Afghanistan. I due, come in certe storielle yiddish, avevano dei rapporti difficili, vivevano ai capi opposti della casa, pregavano in locali separati, pare si siano anche accusati a vicenda dell’appropriazione dell’unico rotolo della Torà rimasto, finché i Talebani risolsero la questione sequestrandolo. Nel 2005 Levy è morto, lasciando solo Simantov nella casa piena di ricordi di una comunità antica e venerabile.