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America is Back? Biden non ha mentito e non vuol fare la fine di JFK

Lo "scandalo" di Kabul conferma che la politica estera degli USA non è come quella interna, in cui si alternano i "cicli della storia americana"

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
America is Back? Biden non ha mentito e non vuol fare la fine di JFK

Central Park, New York: un supporter di Trump sbeffeggia il presidente Biden per la sua politica in Afghanistan (Foto di Terry W. Sanders)

Time: 4 mins read

Sembra che nelle cancellerie degli alleati NATO escano fumi di rabbia e, rimbalzando dai media, il fumo venga inalato anche tra i cittadini europei, per la sorprendente fuga degli americani da Kabul che ha lasciato allibiti per la disorganizzata rapidità. Ma Joe Biden, si chiedono gli europei fumanti di rabbia, non aveva annunciato al mondo che “America is back”?

Una grande illusione che ogni tanto si coltiva non solo in Europa, ma nel mondo che pensa agli USA come “la nazione indispensabile” (espressione utilizzata da Madelaine Albright, segretario di stato di Clinton), è quella che la politica estera della più formidabile potenza militare del pianeta, che potrebbe distruggerlo più volte, sia come il “pendolo” della storia americana del celebre storico e consigliere del presidente Kennedy, Arthur Schlesinger Jr.: cioè che anche l’impegno degli USA col mondo oscillerebbe tra “isolazionismo” e “multilateralismo”.

In realtà, mentre le oscillazioni del pendolo della storia americana funzionano abbastanza regolarmente per quanto riguarda la politica interna, per quanto riguarda la politica estera, questi giri sull’altalena sono stati non solo più rari, ma spesso impercettibili nella sostanza. Certamente nella retorica le differenze ci sono state, eccome, ma nel perseguimento degli obiettivi di politica estera e come raggiungerli, meno, molto meno.

Quello che qui si sta cercando di spiegare è che tra “l’America First” di Trump e l’”America is Back” di Biden c’è molta meno differenza che tra la Coca Cola e la Pepsi Cola, come ai tempi della Guerra Fredda gli analisti europei amavano paragonare le differenze tra le amministrazioni democratiche e repubblicane.

Come spiegò bene con una battuta il celebre Speaker della Camera Tip O’Neal, “all politics is local”. Come in tutto il resto delle democrazie mondiali, ma soprattuto negli USA, qualunque politico e quindi anche e soprattuto il presidente americano, dove prendere le decisioni di politica estera basandole alle esigenze di politica interna. Almeno se il presidente vuol tentare di restare alla Casa Bianca per più di 4 anni.

Immagine straziante di afgani in fuga da Kabul (youTube)

Per questo Biden, già da mesi, aveva preso delle decisioni sull’Afghanistan che non lasciavano dubbi. Quando il ritiro – che doveva secondo il primo annuncio essere completato l’11 settembre – è diventato molto più problematico del previsto, la decisione di Biden di far “tagliare la corda” agli USA dai suoi impegni nel contenimento dei talebani, non è rimasta solo scontata, ma è stata considerata “giusta” da chiunque potesse guardare alla situazione politica degli USA nell’estate del 2021. Biden non vuol essere il presidente autolesionista che darà più vantaggi al prossimo sfidante repubblicano per la Casa Bianca.

Come ha scritto Charles Kupchan su Foreign Affairs, “Against a backdrop of decades of economic discontent among US workers, recently exacerbated by the devastating impact of the pandemic, voters want their tax dollars to go to Kansas, not Kandahar”.

Nel cercare di prevedere le prossime mosse degli USA nel mondo, sarebbe meglio cominciare a intuire che “America is Back”, sia solo un altro modo – magari più “politically correct” – di ribadire “America First”: perché in politica estera gli USA continueranno a perseguire quello che tutti i presidenti hanno finora tentato di fare, da Washington in poi: anteporre l’interesse del popolo americano, o almeno quello che loro percepiscono sia in quel determinato momento, su tutte le grandi decisioni da prendere nello scacchiere mondiale.

Trump vs Biden (Illustration by Antonella Martino)

Eccezioni alla regole? A parte “La società delle Nazioni” perseguita da Woodrow Wilson, di cui il Congresso USA rifiutò di ratificare l’entrata, ci sembra che l’unico presidente moderno che, nella sua dottrina di politica estera, sembrò anteporre l’interesse degli americani ad un valore più grande (pensandolo nel suo credo che comunque corrispondesse a quello del popolo degli USA) è stato Jimmy Carter, che vide nel rispetto dei diritti umani, la bussola per guidare i rapporti con il resto del mondo. Ma, se si vede a come finì l’esperienza del “venditore di noccioline” della Georgia diventato presidente, si capisce che nella storia americana i “Commander-in-chief” sono molto restii dal discostarsi dal sicuro “main corse”.

L’eccezione che conferma la regola ci fu, con un altro presidente, che dopo la crisi dei missili di Cuba del 1962, tentò di ribaltare la politica estera USA adagiata sull’“America First”, cercando di trasformarla in “Peace First”. Quel presidente era JFK, ma dopo aver annunciato quel nuovo corso davanti agli studenti dell’American University nel giugno del 1963 e poi all’Assemblea Generale dell’ONU, a lui finì peggio che a Carter.

AGGIORNAMENTO: Qui sotto la conferenza stampa di Joe Biden oggi

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e dirigo La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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