Con il presidente impegnato in Europa per riprendere il dialogo e il ruolo guida tra i Paesi del G7, a Washington i democratici sono alla ricerca di una intesa tra loro stessi. E non è facile. L’ala più a sinistra del partito chiede a gran voce le riforme, quelle promesse da Biden durante la campagna elettorale: ambiente, energia pulita, ripresa economica, immigrazione e quelle successive avanzate dopo gli atti di violenza da parte della polizia e dopo le restrizioni elettorali imposte da alcuni Stati del Sud. Poi il presidente con il suo American Job Plan da 2 mila e 200 miliardi di dollari cerca l’appoggio dei democratici conservatori che dinnanzi ad impegno finanziario di questa portata vogliono anche i repubblicani a bordo. In questo panorama il leader della maggioranza al Senato Chuck Schumer ha il suo da fare per cercare di tenere i suoi colleghi in linea con le decisioni del presidente. Al Senato i democratici hanno un numero di seggi uguale a quello dei repubblicani, la maggioranza viene raggiunta con il voto della vicepresidente Kamala Harris, ago della bilancia in caso di pareggio. In queste condizioni non c’è spazio per il dissenso. Basta un solo senatore democratico contrario ad una proposta di legge che la maggioranza viene meno.

Le dichiarazioni del senatore democratico della West Virginia, Joe Manchin, di essere contrario ad alcune proposte volute dal suo stesso partito come la riforma elettorale, la limitazione del filibuster, la riforma della polizia, rischiano di bloccare l’agenda di Biden. E il senatore della West Virginia non è il solo democratico ad essere contrario alle revisioni, soprattutto a quella per cambiare le regole per l’ostruzionismo della minoranza.
Al Senato il regolamento vuole che un disegno di legge per passare debba ottenere la maggioranza qualificata anziché quella semplice. In questo modo la minoranza di 40 senatori contrari alla discussione di un disegno di legge presentato dalla maggioranza è in grado di bloccarne la discussione perché per eliminare l’ostruzionismo, il filibuster, servono 60 voti. Una regola imposta il secolo scorso per forzare il dialogo e trovare il compromesso tra i due partiti. Per cambiare la regola basta la maggioranza semplice. Da quando Obama conquistò la Casa Bianca il filibuster è stato trasformato dai repubblicani nella dittatura della minoranza. Ultimamente è stata usata per impedire la formazione della Commissione d’inchiesta sull’insurrezione del 6 gennaio. Un affronto al buon senso, alla Costituzione, alle regole democratiche che ha dato spinta alla voglia di cambiamento. I democratici più conservatori si oppongono ricordando che quando erano loro in minoranza grazie al Filibuster riuscirono a bloccare la cancellazione dell’Obamacare voluta da Trump.
La regola già una volta venne cambiata dai democratici per sbloccare il granitico ostruzionismo dei repubblicani per la nomina dei giudici federali nominati dall’Amministrazione Obama. L’allora leader della maggioranza democratica, Harry Reid, davanti all’impasse del filibuster repubblicano decise di modificare il regolamento cambiando il voto al Senato da maggioranza qualificata a maggioranza semplice specificando che il cambiamento era applicabile solo per la nomina dei giudici federali escludendo quelli per la corte suprema federale. Questo cambiamento venne “ritoccato” anni dopo da Mitch McConnell, divenuto capo della maggioranza repubblicana al Senato, per nominare i giudici della Corte Suprema tutti conservatori. Un cambiamento delle regole voluto dai democratici che poi, quando hanno perso la maggioranza si è trasformato in un boomerang.
Il dibattito tra le anime del partito democratico su come portare avanti i progetti della Casa Bianca è serrato: Bernie Sanders, il combattente senatore del Vermont, è per il confronto, Manchin è per la mediazione.

Alla Camera oggi è stato lungamente interrogato dalla Commissione Giustizia il direttore dell’Fbi Chris Wray, nominato da Donald Trump, sull’insurrezione del 6 gennaio lanciata dai seguaci dell’ex presidente. “Circa 500 persone sono state incriminate per le violenze e i reati che hanno commesso sono molto gravi” ha detto Wray. Il direttore dell’Fbi ha detto che per il Bureau l’assalto è stato un atto di terrorismo interno. Accusato dal capo della commissione, il democratico Jerry Nadler, di non aver fornito in tempo le informazioni sui preparativi dell’assalto alla polizia del Campidoglio Wray ha detto che l’allarme era stato dato il giorno prima, appena l’Fbi aveva ottenuto informazioni “credibili” sugli estremisti che si erano dati appuntamento a Washington “per compiere atti di violenza”.
Wray non ha voluto dire se Donald Trump e Roger Stone siano tra le persone indagate. “Non credo che sia corretto affermare o smentire i nomi di persone che sono o non sono sotto lo scrutinio degli investigatori”.
Sempre alla Camera la stessa commissione Giustizia ha rilasciato le minute della testimonianza resa la settimana scorsa dall’ex avvocato della Casa Bianca Don McGahan. Dalle sue dichiarazioni traspare la mancanza di conoscenza da parte dell’allora presidente delle basi democratiche del ruolo presidenziale. “Era ossessionato dalle indagini che venivano fatte del procuratore speciale Robert Muller sul Russiagate. Voleva che lo licenziassi – ha affermato McGahan – ma con Trump era difficile avere una conversazione logica. Facevo di tutto per limitare al massimo le sue telefonate. Mi chiedeva costantemente se avevo detto a Rosenstein di licenziare Muller. Io non lo avevo fatto ma gli dicevo di si. Gli spiegavo che da presidente lo poteva fare ma che doveva considerare le conseguenze legali che una simile azione avrebbe comportato visto che era inquisito per ostruzione alla giustizia non poteva licenziare chi lo inquisiva. Ma non trovava pace. Era assillante e ripeteva che Rosenstein doveva licenziare Muller” .

Secondo l’ex procuratore federale del South District Pret Bharara non passerà moto tempo per l’incriminazione formale di Donald Trump da parte del procuratore Distrettuale di Manhattan Cyrus Vance. “Non conosco i fatti, non so nulla delle indagini, ma i miei anni di esperienza mi hanno insegnato che quando dopo mesi di indagini, di testimonianze, viene formato un Grand Jury per stabilire se ci siano i requisiti per un rinvio a giudizio per un ex presidente, le prove dei reati devono essere così inattaccabili e chiare da non lasciare ombra di dubbio sul verdetto”.