LE PREMESSE
Negli anni 80 ebbi il privilegio di raccogliere la testimonianza al Quirinale dell’allora capo dello Stato Sandro Pertini.
Ricordo che invece il presidente Francesco Cossiga ritenne, poco tempo dopo, in ordine all’affare Gladio, di rifiutarsi di testimoniare, come riportato notoriamente dai media.
Con il codice di procedura penale del 1989 questa problematica è stata in fine risolta definitivamente in modo positivo (adottando le necessarie cautele). Il nuovo codice (allora non ancora in vigore) prevede e disciplina infatti ora espressamente questo caso.
Nel 1984, ero giudice istruttore presso il tribunale di Torino, uno dei titolari del ramo più consistente dell’inchiesta sullo scandalo dei petroli (rubricata con il numero 349/81, contro Musselli più 194), e mi trovai nella necessità processuale ed etica di sentire quale testimone a verbale il presidente della Repubblica dell’epoca, Sandro Pertini.

LA TESTIMONIANZA
Il 30 gennaio 1984 mi recai quindi a Roma alla Presidenza della Repubblica. In quell’occasione, il capo dello Stato non oppose obiezioni alla nostra richiesta giudiziaria di ascoltarlo come testimone nell’ambito di una indagine che allora occupava le prime pagine dei giornali. Ovviamente seguimmo esattamente la procedura prevista dal codice di procedura penale vigente. Infatti quando, insieme al pubblico ministero Vittorio Corsi giungemmo alla conclusione della necessità di sentire l’On. Pertini, chiedemmo al presidente della Repubblica se egli fosse disponibile a testimoniare, ottenendo in tempi brevissimi una risposta positiva.
Insomma, ci fu pieno consenso da parte di Pertini e, tramite contatti telefonici preliminari con il generale Ferrara, allora consigliere per l’ordine democratico e la sicurezza del Quirinale, venne fissato l’appuntamento a Roma per il 30 gennaio 1984. Il Pm Corsi quel giorno era impegnato in un altro processo ed io mi presentai da solo. Introdotto alla presenza del Presidente, per riguardo sia alla massima carica rivestita dal testimone sia alla sua età, illustrai preventivamente l’oggetto dell’ interrogatorio e quindi formulai le domande, articolate in tre punti essenziali.
Il nome di Pertini era emerso casualmente sia da alcuni documenti sequestrati agli imputati, sia in alcune intercettazioni operate sui telefoni degli imputati stessi , Ivi si diceva da un lato che il capo dello Stato aveva interesse a mantenere vivo lo scandalo dei petroli per coprirne altri che riguardavano esponenti del suo partito e dall’altro ci si lamentava vigorosamente del suo mancato intervento, come rappresentante storico del PSI, per “frenare” l’attività inquirente dei magistrati di Torino (e loro «strappare le unghie» testualmente).
Infine in una bozza di lettera manoscritta (apparentemente a lui indirizzata e sequestrata al momento dell’arresto all’imputato Bruno Musselli), lo si invitava a intervenire sui magistrati inquirenti per “contenere” lo scandalo.
LE DICHIARAZIONI DEL PRESIDENTE
Il presidente Pertini consultò la documentazione che fu a lui esibita (le carte sequestrate, la trascrizione delle telefonate intercettate e la lettera) e quindi rispose in modo limpido e diretto.
Egli affermò di non aver mai ricevuto la lettera, di non aver mai interferito sulle indagini e di essere intervenuto pubblicamente non certo per invitare a soffocare lo scandalo, ma semmai perché i giudici andassero fino in fondo senza guardare in faccia nessuno.
Subito dopo venne redatto un formale verbale che io firmai e che fu ripresentato il giorno dopo al Presidente. Egli lo rilesse e lo approvò in toto: senza controfirmarlo ma dando atto a verbale che esso era perfettamente conforme al suo pensiero e alle sue dichiarazioni orali del giorno prima.
Come il magistrato, io non gli chiesi di farlo: la presenza come testimone dell’interrogatorio del generale Ferrara valeva quanto una firma. Il tutto durò circa due ore nella prima fase e un’altra ora per la seconda fase.

GLI ANTECEDENTI STORICI
Per comprendere la situazione, è necessario ricordare che l’inchiesta sullo scandalo dei petroli, divisa poi in tre tronconi, cominciò negli anni Settanta.
Nell’Italia settentrionale e centrale, gli inquirenti accertarono un’evasione di imposte di circa 500 miliardi negli anni ‘ 74 – ’78. La vicenda portò alla luce un groviglio di corrotti e di corruttori, di clientele e di sottobosco politico, dietro il quale operavano nascostamente esponenti della classe politica al potere in quel periodo.
Il maxiprocesso di primo grado (più di cento imputati di due tronconi processuali unificati, la maggior parte dei quali condannati) cominciò il 14 gennaio ’86 e si concluse il 30 giugno dell’anno successivo, dopo più di un anno di udienze. Le principali condanne furono di 8 anni per l’ ex capo di Stato Maggiore generale Donato Lo Prete, 3 anni e 10 mesi per l’ ex comandante generale della Finanza generale Raffaele Giudice (aggiunti in continuazione con altra precedente condanna già definitiva), 7 anni peri ul petroliere Bruno Musselli, estinzione del reato per prescrizione con il riconoscimento di responsabilità per contrabbando in concorso per Sereno Freato (processualmente definito «segretario e fiduciario dell’on. Aldo Moro negli anni 1970-1978 e coinvolto nella oscura vicenda di un conto svizzero asseritamente su incarico dello stessa corrente dell’on. Moro )
Successivamente la sentenza fu parzialmente modificata in varie fasi di appello e poi in Corte di Cassazione fino all’ultima decisione nel 1991 e a numerosi giudizi di rinvio alla corte di appello di Torino per rideterminare alcune pene (e non sulla colpevolezza), ferma la prova dei fatti accertati definitivamente. Modifiche rese inevitabili principalmente per ragioni procedurali giuridiche legate alla prescrizione intervenuta per alcuni fatti, per alcune differenti valutazioni sui fatti e soprattutto per motivi legati a mancate autorizzazioni per reati fiscali e militari in sede di consegna estradizionale per taluni imputati; in particolare per la posizione di Freato, (che fu assolto con formula piena in Cassazione).
Fu merito della tenacia del gruppo dei giudici inquirenti e giudicanti di TORINO, MILANO TREVISO, MODENA, MANTOVA ed altri Tribunali se fu possibile raccogliere prove e documenti inoppugnabili e si riuscì ad arrivare ai processi e condanne definitive.
I giudici (in particolare in sede istruttoria) infatti dovettero svolgere un lavoro lunghissimo, minuzioso e defatigante e dovettero altresì confrontarsi a plurime e ripetute intimidazioni e tentativi di sabotaggio dell’inchiesta per impedire l’accertamento delle coperture e delle connivenze di insospettabili personaggi pubblici e politici.

GLI OSTACOLI ALLA GIUSTIZIA
Sarà bene sottolineare che nel 1984 ed alte occasioni, i giudici istruttori di Torino furono investiti – su tutti i giornali e media -da una serie di insinuazioni e accuse (rivelatesi del tutto infondate) provenienti dai vari ambienti politici. Al punto che essi già allora dovettero rivolgersi al Consiglio superiore della Magistratura per essere tutelati dalle pesanti insinuazioni contenute in discorsi pronunciati davanti al parlamento dall’allora ministro degli Esteri Andreotti. I magistrati avevano chiesto alla Commissione parlamentare Inquirente l’apertura di un procedimento penale nei confronti dello stesso Andreotti e dell’ex ministro delle Finanze Mario Tanassi per i delitti di interesse privato in atti d’ufficio e corruzione con riferimento alla iregolare nomina del generale Raffaele Giudice a comandante della guardia diFinanza. Il Parlamento decise tuttavia di non procedere.
D’altronde anche in momenti precedenti e successivi non mancarono certo le denunce calunniose, le manovre di ricusazione artificiose a getto continuo e ogni sorta di ostacoli nel corso di quegli anni e di quei processi. La solidità e l’unione dell’ufficio istruzione di Torino dell’epoca, diretto da un anziano partigiano e militante di “Giustizia e Libertà” (Mario Carassi) permise di reggere a tutte queste difficoltà.
In questo si può ritrovare un’analogia “storica” con quello che avvenne qualche anno dopo a Milano, sotto la guida di F. Saverio Borrelli. In un’ altra occasione, fu la Cassazione e poi il CSM a decidere che il Giudice istruttore di Torino non era incorso in alcun illecito ordinando una serie di perquisizioni di cassette di sicurezza di parlamentari (fra le quali quelle del socialdemocratico Giuseppe Amadei) sempre nell’ambito dell’inchiesta sui petroli.
Fu l’occasione per un altro noto magistrato e pubblicista (Adriano Sansa) di scrivere uno splendido articolo dal titolo “Hanno capovolto la legge” sul settimanale cattolico più diffuso (Famiglia Cristiana) in cui censurava con chiarezza e passione il metodo di “capovolgere le regole per colpire ed intimidire chi osava agire”, pur nella perfetta consapevolezza di “montare” un’accusa infondata ma che comunque sarebbe servita a “colpirne uno per educarli tutti” .
Come si vede, questi tipi di comportamenti da parte del “potere in carica” sono del tutto simili a quelli che abbiamo potuto constatare negli anni ’90 nei confronti dei magistrati di Milano e Palermo, e ancora successivamente per ciò che ha riguardato le vicende giudiziarie specialmente di Milano e Palermo che hanno i coinvolto alti esponenti politici o di grandi organismi pubblici e privati economici finanziari.
Non si può affermare nemmeno oggi, con serena coscienza, che il periodo “berlusconiano” che pur ha raggiunto apici di volgarità e di attacchi alla giustizia mai visti, sia l’esclusivo responsabile di questi atteggiamenti ripetuti che caratterizzano certi partiti .
LE RADICI
Le radici di certe “cattive abitudini” sono infatti lontane, anche se hanno sì subito uno sviluppo abnorme nell’ultimo ventennio. Ma i “semi” e qualche robusto alberello erano già presenti negli anni ’70 e ’80, particolarmente nella gestione democristiana e socialista del potere e nel consociativismo di opportunità, che talora ha caratterizzato anche la condotta di una parte della sinistra.
Con delle luminose eccezioni di taluni: appunto il Presidente Pertini e poi il PCI della stagione di Enrico Berlinguer tra il 1983 e il 1985 in particolare. Successivamente una certa voglia di “compromesso “ non nobile sembra essere rinato con il periodo dalemiano e forse non si è ancora del tutto spento anche oggi.
CONCLUSIONI
Un’ultima considerazione: è mia opinione (del tutto personale) purtroppo e al di là di tanti meriti avuti nel periodo più bui “berlusconiani”, che quel chiaroscuro sia stato presente anche nella successiva vicenda del conflitto del Presidente della Repubblica con la Procura di Palermo,. Comunque la si pensi sul merito e sull’esposizione mediatica forse eccessiva da parte dei magistrati. A mio avviso non può sfuggire al buon senso che certi dialoghi attinenti al procedimento in corso tra Presidente della Repubblica con persone che erano già oggetto di una procedura giudiziaria delicatissima (e comunque una procedura giudiziaria in pieno corso) a mio modesto avviso, non avrebbero dovuto essere nemmeno iniziati .
Simili interlocuzioni telefoniche avrebbero dovuto essere troncate subito e forse nemmeno accettate. Tanto meno, a mia modesta e personalisssima opinione, dovevano essere “scaricate” sulle sole spalle di Loris D’Ambrosio, onestissimo consigliere giuridico del Presidente pro tempore della Repubblica, mettendolo in una situazione giuridicamente e moralmente difficilissima per qualunque onesta persona e tanto più per un magistrato. Loris D’Ambrosio deceduto per un infarto pochi mesi dopo queste vicende per lui dolorosissime era infatti un servitore dello stato limpido integro e preparatissimo, che ho conosciuto e con cui per breve periodo ebbi l’onore di lavorare alla direzione affari penali del Ministero di Giustizia nel 1994.