Dopo l’ennesimo sondaggio disastroso che ha visto Donald Trump rincorrere Joe Biden con più di dieci punti di distacco, alcuni esponenti del partito Repubblicano hanno incominciato a prendere sul serio l’ipotesi di un ritiro del Presidente a pochi mesi dalle elezioni. Ovviamente non esistono né i meccanismi né i presupposti per immaginare di mettere in campo un concorrente diverso da Trump a questo punto della campagna elettorale. Ma immaginiamo per un attimo che questa ipotesi di fantapolitica fosse vera, chi sarebbe il prescelto per sostituire Trump? Questa è una domanda che prima o poi i vertici del partito Repubblicano si dovranno porre, dato che Trump non è né immortale né in un regime dittatoriale.
La risposta più logica è quella di scegliere un candidato che possa far evolvere e dar seguito al Trumpismo che si è ormai impossessato del partito Repubblicano. Un candidato che non rispecchi Trump tanto nel carattere quanto nell’ideologia che lo ha portato al potere. Stiamo parlando della dottrina dell’America First: un’ideologia che si nutre di isolazionismo politico-militare, nazionalismo economico, e demarcazione culturale. Negli Stati Uniti d’America, come in altri paesi Europei, questa ideologia è sempre più spesso pervasa da una necessità inderogabile di proteggere la civiltà occidentale e i valori giudeo-cristiani da influenze esterne. Trova la sua maggiore espressione nell’odio verso l’immigrazione clandestina ed il multiculturalismo radical chic. Uno dei politici che più rispecchia questo identikit ideologico è il vice presidente degli Stati Uniti Mike Pence. A parte la breve parentesi come leader della Task Force contro il coronavirus, non si è sentito molto parlare di lui in questi ultimi 4 anni. Ma uno dei motivi di questo silenzio è proprio la vicinanza tra le sue idee e quelle del Presidente. Quando nel 2019 il democratico Andrew Stein ha suggerito a Trump di sostituire Pence con l’allora ambasciatrice all’Onu Nikky Haley, Trump ha prontamente rifiutato dichiarando, “Mike è con me al 100%.” Quando pochi mesi dopo gli chiesero se fosse disponibile a sostenere una futura corsa presidenziale del suo vice presidente, Trump rispose che avrebbe dato a questa suggestione una “grossa considerazione”. Per un Presidente che non promette neanche di accettare l’esito delle Presidenziali, la dichiarazione verso Pence è più che un attestato di stima.

Inoltre, la storia insegna che dal 1960, quasi tutti gli ex vice presidenti che hanno tentato la corsa presidenziale sono stati nominati dal proprio partito. L’unica eccezione fu il Repubblicano Dan Quayle nel 2000, il quale si ritirò poco dopo aver annunciato l’intenzione di correre. Insomma, Mike Pence pare avere la strada spianata se decidesse di correre come successore di Donald Trump nel 2024. Ci sono però due dubbi amletici che pesano sulla testa del vice presidente. Il primo riguarda la rielezione di Donald Trump. Infatti, correre dopo altri 4 anni di presidenza Trumpiana sarebbe ben diverso rispetto a correre dopo 4 anni di dominio democratico, specialmente se questo dominio derivasse da una sconfitta pesante di Donald questo autunno. Siamo sicuri che i Repubblicani vogliano eleggere un successore sulla stessa falsariga ideologica di Trump dopo che quest’ultimo ha perso il controllo del Senato e della Casa Bianca? Il secondo dubbio riguarda il carisma di Mike Pence. Infatti, per fare il Presidente non bastano le idee e le buone intenzioni, ma bisogna riuscire ad entusiasmare una base elettorale che possa portare alla fatidica soglia dei 270 grandi elettori. Mike possiede la personalità per riempire le arene e portare il popolo dell’America rossa ai seggi?

In alternativa a Pence, sempre seguendo la dottrina dell’America First, ci sono Mike Pompeo, attuale segretario di stato, e Tom Cotton – giovane e vivace senatore dell’Arkansas. Entrambi divergono da Trump per quanto riguarda la politica militare estera. Infatti, mentre Trump ha mantenuto posizioni prevalentemente “dovish” – poco propense allo scontro militare – sia Pompeo che Cotton ricadono nella categoria “hawkish” – favorevoli all’intensificazione dei conflitti e propensi alla guerra nel verificarsi delle condizioni necessarie. Molti pensano che dietro l’uccisione del generale Iraniano Qasem Soleimaini lo scorso Gennaio, ci sia stato lo zampino di Pompeo il quale, proprio come il “traditore” John Bolton, ha sempre favorito un cambio di regime in Iran. Tom Cotton, d’altra parte, è un veterano di guerra, avendo combattuto sia in Afghanistan che in Iraq, prima come ufficiale di fanteria e poi come capitano generale. A soli 43 anni, è uno dei senatori più giovani e una delle voci più critiche verso il regime comunista cinese e la Russia di Vladimir Putin. Nel 2013, presentò un emendamento che proibiva qualsiasi forma di commercio con tutti i parenti degli individui coinvolti nelle sanzioni statunitensi contro l’Iran. Fu poi costretto a ritirare l’emendamento poiché considerato incostituzionale e discriminatorio. Nel 2019, quando gli chiesero la possibilità di una guerra USA-Iran, Cotton rispose che gli Stati Uniti avrebbero “vinto facilmente con uno o due attacchi massimo.” Insomma, sia Pompeo che Cotton sarebbero due individui disposti a perseguire la classica dottrina dell’America first, ad eccezione della politica militare estera, che vorrebbero invece riportare agli anni “d’oro” di George W. Bush.

Un’altro profilo che vale la pena tener d’occhio è quello del Senatore del Missouri Josh Hawley. Proprio come Cotton, Hawley è giovanissimo – 40 anni appena compiuti lo scorso Dicembre – ed è uno dei senatori più elogiati dall’élite Repubblicana. Hawley è una versione 2.0 di Donald Trump: più astuto, più furbo, e decisamente più efferato. Ultimamente si è fatto un nome a Capitol Hill per essere andato contro le cosiddette “big tech companies” – Apple, Amazon, Microsoft, Google – ottenendo un consenso bipartisan. Ma Hawley è anche stato molto critico nei confronti dei social media, accusandoli di silenziare le voci dei conservatori. È sua la proposta di togliere l’immunità che protegge i social media da quello che postano i loro utenti, cosi da renderli legalmente responsabili per tutto ciò circola sulla loro piattaforma. Una proposta coraggiosa che il Presidente in persona ha deciso di cavalcare dopo che alcuni suoi tweet furono oscurati dalla piattaforma lo scorso Maggio. Hawley avrà altri 4 anni di tempo per conquistarsi la fiducia del suo partito prima di una potenziale corsa alla Casa Bianca. Charles Fain Lehman, editorialista del Washington Examiner e grande conoscitore della compagine Repubblicana ci avverte, “nessuno all’interno del partito Repubblicano è meglio posizionato di Hawley per modellare il futuro del conservatorismo”.
Esiste poi l’opzione “diplomatica”: quella Nikki Haley tanto corteggiata dall’amministrazione Trump, ma mai realmente considerata per una posizione di rilievo. Non ha certamente giocato a suo favore la netta opposizione a Trump durante la campagna elettorale del 2016, quando pur di non sostenere Donald diede il suo endorsement prima a Marco Rubio e poi a Ted Cruz. Da ambasciatrice americana all’Onu, Haley si è contraddistinta per essere riuscita a mantenere i rapporti internazionali degli Stati Uniti nonostante il protezionismo conclamato del Presidente in carica. Nikki non ha mai avuto paura a scontrarsi con Donald, specialmente quando quest’ultimo tentò di proibire l’immigrazione mussulmana verso gli States; una mossa che giudicò “anti-americana.”

Nel 2017, Haley prese la posizione delle donne che accusarono Trump di aggressione sessuale dichiarando che “dovrebbero essere ascoltate.” La rottura definitiva con l’amministrazione Trump ci fu nell’Ottobre del 2018, quando Haley accusò la Cina di violare i diritti umani nei cosiddetti “campi di rieducazione” per i mussulmani Uyghur. Una mossa anti-cinese che apparentemente Trump non gradì, dato che – come già dichiarato da John Bolton nel suo ultimo libro – il Presidente stava provando a costruire un rapporto di amicizia con Xi Jinping per favorirlo nella sua rielezione. Haley rappresenterebbe una rottura definitiva con il populismo Trumpiano, non solo per quanto riguarda la dottrina ideologica dell’America First – Nikki è una Repubblicana tradizionale – ma anche per quanto riguarda il modo di porsi sotto i riflettori. In più, dettaglio non da sottovalutare, è una delle pochissime donne nel partito Repubblicano con un livello di esperienza e competenza adatto per guidare il partito in un futuro post-Trump.
Ma se Haley rappresenta l’opzione più diplomatica, c’è ne un’altra che porterebbe il partito Repubblicano ad adottare posizioni ancor più estreme di quelle prese sotto l’amministrazione Trump. Si tratta dell’opzione Tucker Carlson – conduttore del seguitissimo “Tucker Carlson Tonight” in onda su Fox News ogni sera alle 21. Nel secondo trimestre del 2020, il programma di Carlson ha raggiunto l’apice dei 4.3 milioni di spettatori, diventando il notiziario televisivo più seguito in tutta America. I motivi dietro questi numeri record vanno ricercati nelle aspre critiche che Carlson ha riservato a Donald Trump in questi ultimi mesi. Dopo aver votato per Trump nel 2016 e dopo averlo sostenuto per gran parte dei suoi 4 anni alla Casa Bianca, Carlson si è irritato con il Presidente per via della sua “debolezza” nel rispondere alle violenze e ai saccheggi susseguitosi durante le proteste per la morte di George Floyd. Stando a Carlson, Trump avrebbe dovuto immediatamente mobilizzare la forza militare su tutto il territorio statunitense e annunciare, con un discorso alla nazione, l’intolleranza verso questi comportamenti anarchici. Invece, Trump ha preferito nascondersi nel bunker a twittare mentre l’America andava a fuoco. La settimana scorsa Carlson si è lanciato in un attacco insensato verso la senatrice Tammy Duckworth – rimasta in sedia a rotelle per via di un incidente durante il suo servizio militare in Iraq – sostenendo che stesse utilizzando la sua disabilità per silenziare i suoi critici.
La sua voce critica nei confronti di Donald Trump – l’unica in tutta Fox News – assieme ai suoi monologhi senza peli sulla lingua, rendono Carlson una delle figure più controverse e intriganti all’interno del partito Repubblicano. Nonostante Carlson non si sia mai esposto ufficialmente su una sua possibile discesa in campo, alcuni colleghi conservatori pensano che sia l’unica personalità in grado di entusiasmare la base dopo l’uragano Trump. Infatti, il rischio di tornare ad un candidato “moderato” e “diplomatico” come Haley, è quello di perdere i milioni di elettori che ancora credono nella dottrina populista dell’America First. Carlson rappresenta una versione più estrema del populismo che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016. Il conduttore di Fox News unisce la demarcazione culturale di Donald Trump con la retorica anti-establishment e anti-capitalista di Bernie Sanders. Ha recentemente dichiarato che l’America è afflitta da un “capitalismo avvoltoio” e che i Repubblicani “sono parte del problema.” Ha attaccato Trump per non avere ridotto i benefici fiscali delle ricche società di private equity e ha addirittura avanzato l’ipotesi di una cospirazione bipartisan per proteggere gli interessi di Wall Street. In aggiunta a tutto ciò, ha assunto posizioni nette contro l’immigrazione clandestina, dicendo che gli immigrati rendono l’America “più povera, sporca, e divisa.” Insomma, un Trump all’ennesima potenza con pulsioni anti-capitaliste alla Bernie Sanders.
Il quadro appare chiaro: o un ritorno alla diplomazia e al tradizionalismo con un candidato alla Haley, o un proseguo della dottrina dell’America First con posizioni più interventiste dal punto di vista politico-militare, o addirittura una versione ancor più estrema di Trump con tendenze anti-capitaliste. L’unica certezza al momento è che non ci sono certezze, e qualsiasi strada decida di prendere il partito Repubblicano c’è il rischio concreto di una divisione interna tra moderati e radicali, proprio come sta accadendo ora con il partito Democratico. Trump ha riportato il partito Repubblicano al potere dopo 8 anni di Obama, ma la confusione che lascia rischia di essere maggiore di quella che ha trovato.