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L’Ospedale delle Bambole: nel cuore di Spaccanapoli la clinica-museo dei giocattoli

Un mestiere con una storia iniziata a Napoli nel 1895, ereditato da Luigi Grassi fino alla pronipote Tiziana che con la clinica-museo ne ha assicurato il futuro

Valentina Di CesarebyValentina Di Cesare
L’Ospedale delle Bambole: nel cuore di Spaccanapoli la clinica-museo dei giocattoli

Tiziana Grassi nella sua clinica-laboratorio di Napoli

Time: 6 mins read

Anche gli oggetti hanno un’anima, lo si sente dire di frequente: un po’ perchè essi conservano qualcosa che ci riporta indietro nei luoghi che li hanno ospitati, in un tempo in cui noi o qualcuno che amiamo li utilizzava quotidianamente, ma un po’ anche perchè essi ci riconsegnano indirettamente episodi di vita passata che per un momento, proprio grazie a loro, abbiamo l’illusione di rivivere. Quella fatica che molti di noi provano all’atto di buttar via un vecchio oggetto ormai rovinato è più frequente di quel che si pensa, poichè certi oggetti sono carichi di un significato che trascende il loro valore intrinseco e si fa simbolo, proiezione di un sentimento, di uno stato mentale. C’è un luogo unico in Italia, a Napoli, dove si recano le persone che desiderano far riparare un vecchio giocattolo o un oggetto a cui sono particolarmente legati: bambole, orsetti, ninnoli di qualsiasi genere e di qualsiasi epoca, trovano cura e riparo all’Ospedale delle Bambole, in via San Biagio dei Librai, nel cuore di Spaccanapoli. In questo laboratorio tutto è possibile: ogni oggetto riprende forma, il passato e il presente si incontrano in un’atmosfera sospesa, dove  il tempo si ferma per un po’ e i ricordi non sono più soltanto nostalgiche illusioni.

L’ingresso dell’Ospedale-Museo delle bambole di Napoli

“La storia nasce nel 1895 – racconta Tiziana Grassi, primario dell’Ospedale delle Bambole – a quei tempi il mio bisnonno Luigi Grassi ideava e realizzava le scenografie del Teatro dei Pupi. Aveva la sua piccola bottega in Via San Biagio dei Librai e lì ogni tanto portava con sè qualche pupo che durante le rappresentazioni si  era rotto o scheggiato. Il giorno dopo gli spettacoli si sedeva lì, li smontava pezzo per pezzo e li riparava. Questa abitudine pian piano richiamò l’attenzione di persone del quartiere, abitato da famiglie anche abbastanza benestanti, le cui figlie magari avevano in casa qualche bambola rotta che le madri volevano a tutti i costi far aggiustare. Il mio bisnonno, anche per l’arte dell’arrangiarsi, iniziò ad accettare queste richieste di riparazione che non aveva preventivato fino ad allora. Da lì a poco la voce si sparse tant’è che la piccola bottega era ormai disseminata di piccole teste, gambe e braccia di bambole di ogni misura. Una signora del quartiere, osservando tutti quei pezzi sparsi in bottega, un giorno passando esclamò ‘Mamma mia che impressione, mi sembra proprio l’ospedale delle bambole’ “.

Luigi Grassi intuisce che in quel momento la signora ha trovato il nome giusto alla sua attività, così prende in fretta una tavola di legno abbastanza grande e vi scrive sopra a chiare lettere, con della vernice rossa, “Ospedale delle bambole”. Aggiunge alla scritta anche una croce, proprio come quella che vediamo entrando in un pronto soccorso. Da quel momento il restauro delle bambole diventa il suo mestiere, tant’è che Luigi Grassi inizia ad avere rapporti con aziende produttrici di bambole in Europa (soprattutto quelle di Francia e  Germania), dalle quali si rifornisce di numerosi pezzi di ricambio. A Luigi un giorno subentra suo figlio Michele che riprende in mano il lavoro di famiglia, e dopo Michele è la volta di suo figlio Luigi, che porta lo stesso nome del “fondatore” dell’ormai noto Ospedale delle Bambole. Negli anni 60-70,  in Italia ci sono importanti aziende produttrici di bambole come la Furga, Migliorati, Bonomi, Lenci, realtà floride che intrattengono rapporti di lavoro molto frequenti con la bottega dei Grassi. Quelli sono anni di lavoro appassionato e instancabile, ma alle porte si intravede pian piano il cambiamento così, col passare degli anni, l’Ospedale delle Bambole diventa sempre più un luogo surreale.

Mentre il rapido progresso muta ogni cosa, quello resta un posto fuori dal mondo.

Una immagine dell’Ospedale-Museo della bambole di Napoli

Tiziana è la primogenita di Luigi:  figlia d’arte e prima donna restauratrice di bambole della famiglia, sin da giovanissima impara in bottega l’arte del restauro, seguendo il lavoro di suo padre che la mette in guardia sulle difficoltà che un mestiere come il loro può comportare. Tiziana, sin da ragazza, sa bene che il suo è un mestiere anomalo ma non riesce a immaginare il suo futuro al di fuori di quel piccolo laboratorio. Allo stesso tempo non può non accorgersi che le aziende italiane produttrici di bambole ormai stanno chiudendo: proprio quelle ditte che in passato erano così orgogliose di poter fornire pezzi di ricambio tanto da non chiedere talvolta alcun pagamento, ora decidono di chiudere i battenti.

“I restauri continuavano – afferma Tiziana – ma erano diminuiti rispetto al passato e io iniziavo a chiedermi cosa sarebbe stato di me e del laboratorio, di quel luogo simbolico così importante per la mia famiglia ma anche per la città e per la sua storia: negare che nulla fosse cambiato sarebbe stato sciocco. Continuavo comunque a ricevere visite di persone del quartiere o  di passanti che venivano in bottega anche soltanto per dirmi quanto fosse magico e suggestivo il nostro laboratorio, per non parlare poi dei turisti che ormai conoscevano il posto e venivano a cercarlo per fotografarlo. Negli anni molta gente è giunta fin qui a donarci le proprie bambole, anche quelle che non dovevano essere riparate: mi sono resa conto che la bottega era in qualche modo percepita come luogo di riparo, di rifugio per gli oggetti dell’infanzia. Pur di salvarle dallo scorrere tempo e dall’imperversare dei cambiamenti, decine di persone venivano a consegnarci bambole e orsetti perché sapevano che da noi non sarebbero andate perduti. C’era inoltre un altro aspetto importante: chi veniva in bottega era incuriosito dalla nostra storia, voleva saperne di più di noi, di questo curioso mestiere e desiderava parlare con me, anche mentre stavo lavorando. Alla fine, nelle guide turistiche della città e persino sul New York Times (questo già da quando era ancora vivo mio padre) iniziava a comparire il suggerimento di passare in San Biagio dei Librai per visitare l’Ospedale delle Bambole, per cui ad un certo punto mi sono decisa: bisognava fare un passo avanti e trasformare un po’ la bottega, bisognava che divenisse a tutti gli effetti visitabile, come un museo”.

Il laboratorio è infatti, secondo Tiziana, un luogo affascinante ma troppo piccolo per ospitare le visite sempre più numerose che proseguivano ad arrivare, e lei ormai ha capito che serve uno spazio più ampio, dove costruire un piccolo museo che non si limiti però a conservare decine e decine di bambole, ma che divenga un vero e proprio percorso narrativo che racconti l’idea dell’Ospedale delle Bambole e i suoi cent’anni di incontri e di storie. In un primo momento, Tiziana prova a coinvolgere le istituzioni cittadine ma non riesce a trovare un accordo: l’Ospedale delle Bambole non può essere stravolto né tanto meno può essere sradicato dal cuore di Spaccanapoli, dov’è ormai un simbolo importante. Tiziana deve trovare uno spazio adatto al suo museo ma vuole restare nel quartiere: trasferirsi altrove non avrebbe senso. La sua bottega di soli diciotto metri, dove il suo bisnonno ha iniziato molti anni prima è davvero troppo piccola, ma trovare un luogo più spazioso dalle sue parti sembrava impossibile;  un giorno però, la padrona di Palazzo Marigliano, una antica struttura a soli cinquanta metri dal vecchio laboratorio, annuncia a Tiziana che sarebbe disposta a darle il suo spazio per l’allestimento del museo.

Una stanza dell’ospedale-museo delle bambole di Napoli

“Quando qualche anno fa ho visto le scuderie di Palazzo Marigliano – racconta Tiziana- non credevo ai miei occhi: era finalmente l’ambiente perfetto per il museo. Anche grazie all’aiuto del regista e scenografo Stefano Gargiulo abbiamo costruito un luogo davvero magico,  impreziosito da installazioni suggestive, fatte di luci, ombre, suoni di carillon, filmati a manovella. L’ingresso al museo e il suo attraversamento, diviso in tanti reparti, proprio come quelli di un ospedale, portano infine allo spazio chiamato “bambolatorio”, ovvero il laboratorio dove, rigorosamente in camice bianco, io e le mie collaboratrici aggiustiamo bambole, orsetti e vecchi giocattoli; in questo modo i visitatori possono vedere con i loro occhi l’attività di restauro. La vecchia bottega al numero 81 è ormai chiusa da tre anni, ma sul portone rimane ancora una indicazione che rimanda all’attuale ubicazione dell’Ospedale, qualche metro più avanti. Gli avventori più frequenti del nostro Ospedale sono persone comuni provenienti da tutta Italia, particolarmente legate ad un oggetto della propria infanzia che vorrebbero far rimettere in sesto, aggiustare, smacchiare o semplicemente ‘ringiovanire’. L’oggetto viene pagato dopo il lavoro di restauro, il cliente deve prima vedere se il lavoro è stato svolto secondo le proprie indicazioni.  I clienti che non possono recarsi di persona a Napoli, mi telefonano o mi scrivono per descrivere i loro oggetti e parlarmene, raccontare le storie e i legami che li legano a essi e che li rendono particolarmente desiderosi di vederli rimessi a nuovo. Mi inviano anche foto e poi me li spediscono: all’interno dei pacchi, insieme all’oggetto da restaurare trovo lettere molto emozionanti da parte di persone di ogni età. Ognuna di loro ha una storia unica e talvolta commovente, perciò è importante ascoltarle, sapere che tipo di legame hanno con quella bambola o quel vecchio giocattolo. Noi abbiamo una responsabilità di non poco conto: non dobbiamo mai stravolgere ciò che ci viene inviato per essere restaurato, perciò alla fine dobbiamo riconsegnare rispettando sempre le richieste e donando all’oggetto il volto di prima. Non si tratta di trovare semplici pezzi di ricambio, noi ripariamo i ricordi delle persone e li facciamo tornare in vita. I ricordi sono necessari alla costruzione del futuro e, a proposito di futuro, sogno da tempo di realizzare un desiderio : portare l’Ospedale delle Bambole a New York…”

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Valentina Di Cesare

Valentina Di Cesare

Nata a Sulmona e cresciuta a Castel di Ieri (AQ), Valentina Di Cesare si laurea in Letteratura Moderna e Contemporanea con il Professore e critico letterario Giancarlo Quiriconi, e si specializza a Siena nella Didattica della lingua e della cultura italiana a studenti stranieri. Attualmente vive a Milano, dove insegna Lettere in una scuola statale, e lingua italiana a visiting students all'Università. Si occupa di Letteratura contemporanea e letteratura delle migrazioni, ed è scrittrice. Il suo primo romanzo "Marta la sarta" (Tabula Fati Edizioni) è uscito nel 2014 ed è stato tradotto in lingua araba e in lingua romena. Nel 2018 ha pubblicato, per la casa editrice Urban Apnea, il racconto lungo "Le strane combinazioni che fa il tempo", mentre nel 2019 è uscito il suo secondo romanzo, "L'anno che Bartolo decise di morire" (Arkadia Editore)

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