E’ andata in Umbria come doveva andare: un previsto e non meritato successo. Un prevedibile, meritato insuccesso. Un trionfo per la Lega di Matteo Salvini e per i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni con la vittoria di Donatella Tesei. Una sconfitta secca per il Movimento 5 Stelle. Una sconfitta pesante del Partito Democratico di Nicola Zingaretti. Una sconfitta personale del presidente del Consiglio, incautamente Giuseppe Conte, sceso in campo, e proprio nelle stesse ore in cui l’autorevole Financial Times lo accusa di un grave conflitto di interessi a beneficio del Vaticano (tutto da prendere con le molle e da verificare, ma l’accusa c’è). E’ vero, poi, che il voto per la guida della regione Umbria (voto significativo per quel che riguarda l’affluenza, consistente) altro non conferma che una tendenza: il centro-destra già guida Perugia e Terni, Spoleto e Foligno; tuttavia questa è la prima sconfitta di quella coalizione (PD e M5S più altri) che si è costituita con l’esplicito obiettivo di sconfiggere Salvini e il sovranismo. Accade che sei elettori su dieci hanno al contrario ‘premiato’ coloro che si voleva ‘punire’.
Cambierà qualcosa? Nel PD dovranno pur riflettere, su questa specie di Caporetto, la cui responsabilità cade tutta sulle spalle di Zingaretti; in nessun Paese normale elezioni di carattere amministrativo si riflettono negativamente sul Governo centrale. Ma l’Italia è un Paese ‘normale’?
Il centro-destra (più correttamente si dovrebbe cominciare a dire destra-centro) espugna, una a una tutte le roccaforti un tempo governate dal centro-sinistra. Qualche conseguenza comporterà. Chi fiuta dove spira il vento è il Presidente della regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, dove si voterà a gennaio: invoca l’abbandono dell’intesa (o come la si vuol chiamare) con i grillini, e di trovare un modo di dialogare con Matteo Renzi.
Quanto ai pentastellati è prevedibile che si assisterà a breve a un cruento regolamento di conti interno. Dichiarare, come oggi fa, che dalle urne umbre è arrivato il messaggio che il ‘laboratorio’ è fallito e non più ripetibile, è solo il segno di una confusione interna e che i nodi stanno venendo al pettine, e non si sa che cosa offrire all’elettore, sempre più disincantato e che da tempo ha smesso di credere in Babbo Natale.
Il centro-destra (destra-centro), a egemonia Salvini e Meloni, con un Silvio Berlusconi spompato e fiacco che fa da malinconica spalla, gonfia il petto. Per contro il centro-sinistra appare fiaccato da cinquant’anni di potere che lo ha reso via via, potente, prepotente, impotente.
Poi, sì, ha ragione il pragmatico e romanamente cinico Goffredo Bettini: il voto umbro conta solo per “comprendere quanto il Partito Democratico ha recuperato rispetto al disastro delle ultime europee, dove Salvini era in testa”. Bettini a urne ancora aperte si fascia la testa, a prescindere dalla ferita e dalla sua entità: “E’ una regione con un tessuto complesso, associativo, solidale, che con la Lega sarebbe messo in discussione”. Quanto a Salvini è ammirevole il suo saper “riorganizzare la destra, che ora è la sintesi di un populismo moderno, autoritario e regressivo. Oggi è più accattivante perché ha abbandonato l’aspirazione dichiarata ai ‘pieni poteri’. Salvini si è riconvertito a leader di coalizione. Ma nel guanto di velluto nasconde il pugno di ferro”. E per quel che riguarda il PD, e il centro-sinistra: “Il nostro campo di forze appare troppo diviso. Ma la strada dell’unità è l’unica che si può praticare”.
Poi certo: è comunque stravagante che una consultazione per il governo regionale assuma valore di test nazionale; e che la regione in questione non è, con tutto il rispetto che si deve per le altre, la Lombardia, il Veneto, il Piemonte, l’Emilia-Romagna, il Lazio, la Campania, la Sicilia. E’ una regione di due sole province, Perugia e Terni; con poco più di settecentomila votanti… E’ pur vero che la stravaganza da tempo è la regola. Tra breve sarà un test per Palazzo Chigi anche l’elezione dell’amministratore di un condominio. Aveva ragione Lucio Dalla quando cantava che la cosa eccezionale è essere normali.
Salvini era vincitore ancora prima dello spoglio dei voti: leader riconosciuto e incontrastato della coalizione; e il solo fatto che la destra-centro potesse legittimamente ‘sognare’ di vincere, lo rendeva vittorioso. Ragionamento inverso per il centro-sinistra: far scendere in campo mezzo Governo, a partire dal Presidente del Consiglio Conte, era già quello il segno di una sconfitta. Matteo Renzi merita un discorso a parte: il suo ‘astenersi’ anche visivamente dalla contesa, è un po’ come il Nanni Moretti quando si interroga: ‘Mi si nota di più se ci sono o se non ci sono?’. Il problema di Renzi, insomma, è farsi notare.
Poi, certo: ha una sua valenza il ragionamento di un politologo che da sempre segue le vicende politiche con lucida partecipazione, il professor Gianfranco Pasquino: la fotografia che ritrae insieme Conte, Luigi Di Maio, Zingaretti, Roberto Speranza, tutti a fianco di Vincenzo Bianconi “per la prima volta segnala unità di intenti, e non è poco”. Apprezzabile “non tanto per l’importanza della regione in sé, quanto perché in caso contrario sarebbe un segnale molto negativo sia per il Governo che per i partiti che compongono la maggioranza. Mi pare che però abbiano maturato la consapevolezza di dover stare insieme”.
Forti perché sono deboli? E’ un paradosso, ma è proprio così. In qualche modo passerà l’Umbria, passerà anche la Calabria; l’Emilia-Romagna è già un rospo più duro da ingoiare. Ma i conti li sanno ben fare, nelle sedi dei partiti e dei movimenti. Il PD alle politiche può credibilmente raggranellare un 25 per cento, proprio a essere generosi; Renzi non va oltre il 4,5-5 per cento; Carlo Calenda se gli va bene porta a casa un 2,5 per cento. Tirar le somme fa 32-33 per cento. Ecco che senza il Movimento 5 Stelle non si va da nessuna parte; se poi si sciolgono le Camere, e si va al voto con questa legge elettorale Di Maio per primo, e mezzo M5S se ne tornano a casa. Idem per Renzi e la sua Italia Viva; per quel che riguarda il PD ne uscirà con le ossa rotte. C’è chi almanacca un cambio a palazzo Chigi, magari il ‘disoccupato’ Mario Draghi. Però siamo nel campo del futuribile più incerto che mai.
Di Renzi è chiara la strategia: vuole essere a capo di un partito che supera la destra e la sinistra, modello Emanuel Macron, che però ha fatto fuori il Partito Socialista, mortificato i centristi gollisti, ma non certo a destra di Marine Le Pen. In Italia, Renzi, non potendo egemonizzare il PD, lo vuole semplicemente mettere in liquidazione. Non comprende, non vuole capire, che è stolto guardare fuori casa per risolvere i nostri problemi, e che non serve, anzi, è dannoso, richiamarsi una volta a Tony Blair, l’altra a Barack Obama, adesso a Macron. Un provincialismo miope che altri grandi leader del recente passato non hanno mai nutrito. E anche questo è un segno di decadenza.
Il PD zingarettiano è carente di strategia e di tattica politica: un qualcosa di indefinito che non riesce a essere carne o pesce. Vorrebbe essere un partito, ma al tempo stesso un movimento; un circolo di idee e di confronto, ma non coltiva luoghi di riflessione e partecipazione; dovrebbe fare appello e dare credito agli iscritti, chiamarli a congressi che siano tali, farli discutere e votare. Teorizzano invece il partito ‘liquido’, e al tempo stesso sono anchilosati come pachidermi finiti in sabbie mobili…
Conte dovrà rivedere la sua strategia. Ha ‘sognato’ che vincesse Bianconi; si sarebbe potuto presentare come una specie di Romano Prodi, capace di contrastare e vincere Salvini. La fotografia a Narni questo significato aveva. Forte nei sondaggi di popolarità, alla prima partita giocata Conte incassa la prima sconfitta. Ci sono altre partite, ma intanto la realtà gli dimostra che i sondaggi sono una cosa, il voto concreto un’altra.
Il centro-sinistra e il M5S possono solo farsi forti della loro debolezza. Salvini, al contrario, per ora è debole proprio in virtù della propria forza.