Delirio di onnipotenza? Miopia politica che si traduce in conseguenze estreme e non comprensibili? Ci si era sbagliati “ieri”, quando si credeva che fossero due condottieri inarrestabili, protesi verso la vittoria e l’annichilimento degli avversari? Quale risposta si dà, è un fatto che il leader della Lega Matteo Salvini per mesi sembrava invincibile; ecco che “scivola” in una sgangherata e volgare conferenza stampa in costume da bagno sulla spiaggia di Milano Marittima, invoca “i pieni poteri”. Hai voglia poi di spiegare che si trattava di un modo di dire: quell’affermazione “datemi i pieni poteri”, fa correre un brivido lungo la schiena. E dopo quella “scivolata”, tante altre che non si contano neppure più…
Ci si interroga ancora oggi come Salvini, giunto all’ultimo metro prima dell’agognato traguardo, sia riuscito a sciupare tutto, ed ecco un secondo evento, incomprensibile, che segna questa balorda estate italiana 2019: un Partito Democratico che ancora si lecca le ferite di recenti, passate sconfitte, riesce in qualche modo a rattoppare un Governo di legislatura con il Movimento 5 Stelle, due debolezze che insieme fanno una piccola forza, ed ecco che l’ex segretario Matteo Renzi annuncia la costituzione di un suo nuovo partito; un’ennesima costola della sinistra che si incrina. Hai voglia di dire che il suo gruppo non metterà in discussione il delicato equilibrio raggiunto dal Conte-due; hai voglia di spiegare che lo scopo non è colpire il PD, piuttosto allargare il perimetro del consenso di un fronte anti-sovranista e specificatamente anti-Lega.
E’ forse una sorta di “maledizione”, ti chiami Matteo, fai politica; e dunque il tuo fare e il tuo dire si traduce in un fare e in un dire degno del “Capitan Spaventa”, la maschera ligure che caricaturizza il soldato di ventura, fifone, sbruffone e spaccone, che vuole averla vinta a tutti i costi, e puntualmente gli va male?
Originale davvero, il nome che Renzi e i suoi hanno scelto per il loro partito; dopo la berlusconiana “Forza Italia”; dopo il meloniano “Fratelli d’Italia”; ecco il renziano “Italia Viva”. Tutto questo nazionalismo lessicale rivela più di quanto non dica… Ammesso che Renzi metta insieme un 5 per cento, rubacchiandolo qua e là, che pensa mai di poter fare? Dove crede di andare? L’operazione messa in essere rivela tattica miope, senza respiro strategico…
Il dire, il fare di Renzi ricorda la rana di Fedro:
“Una volta una rana vide un bue in un prato. Presa dall’invidia per quell’imponenza prese a gonfiare la sua pelle rugosa. Chiese poi ai suoi piccoli se era diventata più grande del bue. Essi risposero di no. Subito riprese a gonfiarsi con maggiore sforzo e di nuovo chiese chi fosse più grande. Quelli risposero: – Il bue. Sdegnata, volendo gonfiarsi sempre più, scoppiò e morì. Quando gli uomini piccoli vogliono imitare i grandi, finiscono male”.
A questo punto, conoscere e far tesoro di un po’ di storia non guasterebbe. Se solo fosse vero quello che dice Cicerone nel suo “De Oratore”: “Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis…”.
Ma così non è; o è rarissimamente.
La storia della sinistra, plasticamente è rappresentata dal famoso dipinto “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo; ma da sempre è anche storia di divorzi e separazioni, consensuali o traumatici che siano.
La scissione più famosa è quella che si consuma a Livorno nel 1921. Su diretto impulso di Lenin, la frazione massimalista del Partito socialista, guidata da Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga, Nicola Bombacci, Umberto Terracini, fonda il Partito Comunista; obiettivo dichiarato: la conquista rivoluzionaria del potere, come in Russia. Ma anche prima accadeva che il partito assumesse una posizione, il gruppo parlamentare un’altra, e il giornale del partito, “L’Avanti!”, una terza.
1947: Palazzo Barberini. Giuseppe Saragat esce dal partito socialista, accusa Pietro Nenni di frontismo e filocomunismo. Invano Sandro Pertini ammonisce: “Divisi si perde”. Saragat fonda il Partito Socialdemocratico Italiano, occidentale e anti-comunista. Più volte i due partiti, negli anni successivi, tenteranno una “riconciliazione”. Dopo qualche tempo, tornano sempre a dividersi: fratelli-coltelli.
1964: la sinistra del PSI, guidata da Lelio Basso e Tullio Vecchietti dà vita al Partito Socialista di Unità Proletaria. Nel 1972 si scioglie, confluisce nel PCI, tranne l’ala guidata da Vittorio Foa: nasce il Partito di Unità Proletaria, che si fonde con il gruppo del Manifesto, radiato dal PCI.
1991: dalle ceneri del PCI, nasce il Partito Democratico di Sinistra. Una svolta iniziata da Achille Occhetto con il congresso della Bolognina. Armando Cossutta, Sergio Garavini, Fausto Bertinotti e altri non ci stanno, fondano il Partito della Rifondazione Comunista. Nel corso degli ultimi anni è un continuo trasformarsi, dividersi, dissolversi. Penultima scissione, quella guidata da Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema. In questi giorni, ancora una volta, con Renzi, la storia si ripete.
La regola, sempre la stessa: le scissioni producono danni e fallimenti, innanzitutto agli scissionisti. Solo quella del 1921, che ha dato vita al PCI può dirsi riuscita; anche se storicamente e politicamente – dopo anni – ha rivelato tutti i suoi limiti, difetti e lacune.
Per tornare (e chiudere) con Renzi: conclude un percorso da tempo pianificato, quando era ancora leader del PD: quando – è bene ricordarlo – confeziona una legge elettorale (materialmente firmata da un suo uomo di fiducia, Ettore Rosato), che secondo le intenzioni doveva consegnargli i “pieni poteri” nel Partito, nei gruppi parlamentari, e al Governo. Peccato che andato per suonare, sia stato suonato dal centro-destra.
Pur sconfitto, non ha mai cessato un solo istante di pensare a un suo personalissimo partito: poteva essere il PD o qualsiasi altra organizzazione, purché tutto “suo”. Il personaggio del resto è fatto così: la sua vocazione non è quella del regista, non concepisce gioco di squadra; non sa cosa significhi “uno per tutti”, conosce solo “tutti per uno”.
Insomma: non è un leader; vuole essere un Capo. Nell’intervista a “…Il PD nasce come grande intuizione di un partito all’americana, capace di riconoscersi in un leader carismatico e fondato sulle primarie. Chi ha tentato di interpretare questo ruolo è stato sconfitto dal fuoco amico”. Chi doveva essere il “leader carismatico”? Renzi. Che non è stato sconfitto dai suoi errori politici; colpa, piuttosto, del “fuoco amico”.
Nicola Zingaretti non “è un capo carismatico”; ma è un paziente, duro, meticoloso, costante dirigente formatosi alla vecchia “scuola” del PCI. Renzi sapeva bene che avrebbe perso, alle ultime primarie, perché il PD il “capo carismatico”, tutto sommato non lo digerisce. Bello o brutto che sia, pur con tutte le sue trasformazioni e degenerazioni, non è, e non vuole essere un semplice comitato elettorale. Renzi era consapevole che non gli sarebbe riuscita per la seconda volta l’operazione di scalare il PD con le amate primarie, come quando vinse e defenestrò Enrico Letta da palazzo Chigi. Dunque, ha scelto di fare il “capo carismatico” di un partitino del 5 per cento, e di esercitare un potere ricattatorio, grazie al suo gruppetto al Senato, nei confronti del governo. Al momento, infatti, i suoi voti sono determinanti.
Renzi pare abbia rassicurato Conte di stare “sereno”; al posto del presidente del Consiglio saremmo molto inquieti e preoccupati. Si è già visto come è andata, questa storia dello star sereni…
Più in generale: c’è di che riflettere sul PD, come è nato, cos’è diventato, cosa vuole fare… Il PD è nato da una fusione a freddo tra i gruppi dirigenti dei Democratici di Sinistra e della Margherita (ex Democrazia Cristiana), senza un coinvolgimento degli iscritti, senza grandi dibattiti e confronti. Lo aveva subito capito un padre nobile della sinistra, Emanuele Macaluso: “L’illusione che la partecipazione alle primarie di tanti cittadini, i quali però dopo il voto restano estranei alle vicende politiche del partito, fosse il massimo possibile della democrazia era del tutto infondata. Il PD è nato ed è rimasto un aggregato di più soggetti e persone, separato da una partecipazione attiva degli iscritti. Anzi, iscriversi sembrava del tutto inutile. La vicenda di Renzi, in ascesa e discesa, oggi scissionista, è una conferma di questa analisi”.
Infine la domanda che può sembrare un paradosso, ma fino a un certo punto: Renzi lascia il PD; ma ci era mai entrato davvero?