C’è un messaggio chiaro veicolato dalle immagini del ministro degli interni italiano perennemente in costume da bagno, che va alle feste in spiaggia dove cubiste e giovani “tritoni” ballano e trincano aperitivi intonando l’Inno nazionale. Il messaggio è: sono uno di voi, sono come voi. Mi piace il mio Paese. Mi piace la spiaggia (italiana, mica le Comore dove ebbe la malaugurata idea di andare in vacanza Goria, salvo ad essere precipitosamente richiamato a Roma, ricordate? Preistoria). Mi piace la gnocca, mi piace la gioventù, la musica scadente, tunz-tunz. Sono come voi, mi stan sulle palle migranti, zingari e giornalisti. Sono come voi, detesto il Palazzo, anzi, i Palazzi, compresi quelli di Bruxelles, faccio conferenze stampa in bermuda, basta con i formalismi. Sono uno di voi.
Salvini non è l’unico ovviamente ad indugiare nella retorica dell’uomo del popolo, anzi, essa attraversa trasversalmente la storia dei populismi. Va detto peraltro che nessuno può dirsi pienamente innocente. Questo lavoro di demistificazione delle istituzioni e della riduzione del politico a uomo del popolo ha radici robuste.
Ricordate le analisi di Scalfari di, più o meno, trent’anni fa, stagione del Pentapartito? Ricordate cosa scriveva Repubblica? Una delle tesi che all’epoca andava per la maggiore era quella della distanza delle istituzioni dai cittadini, o meglio, come si diceva allora, dalla società civile. Vi erano forse ancora echi della diversità berlingueriana in questo approccio, l’idea che da un lato ci fossero gli onesti e dall’altra i corrotti (o i corruttori).
Si era alla vigilia di Mani Pulite, che al netto degli eccessi giustizialisti ha avuto il grande merito di mettere a nudo un sistema politico in cui, sì, in effetti chi aveva una fetta più o meno grande di potere non era mica come un cittadino qualunque, poteva esigere mazzette, rubare e nascondere la refurtiva nei puf del salotto, far passare leggi a beneficio degli amici degli amici.
Quanta acqua è passata sotto i ponti. Già con Berlusconi le cose cominciarono a cambiare. Berlusconi certo non era “uno di noi”, ma in fondo trasmetteva questa idea: l’uomo che si è fatto da sé, che suonava sulle navi da crociera e poi ha costruito in impero miliardario, per arrivare, alla fine, ai vertici dello stato. Rimanendo uno del popolo: uno a cui piace il trash, la musica-spazzatura, le ninfette, le ville stile Gardaland. Generoso con gli amici. Paterno e rassicurante. Ma anche insolente macchietta, se necessario. Il Giamburrasca che fa le corna nelle foto.
La distanza con il popolo (la società civile?), si era ridotta.
Prodi e D’Alema li vedemmo andare in bicicletta e giocare a calcio (quando fastidio diede al secondo la presa in giro di “Striscia la notizia” sul suo tic di soffiarsi sulle mani strette a pugno quando giocava a calcio). Ma in generale, credo non si possa dire che avessero atteggiamenti prettamente populisti. Diverso il discorso per Renzi, che non era (e non è) immune a certe lusinghe. Lo prova la sua passione per i selfie, di cui è stato il grande sdoganatore. Non si tratta di un particolare secondario. Il selfie è la metafora della nuova politica per eccellenza. Attenzione, il selfie, non la foto del fotografo professionista, che segue la politica per documentarla. Per scattarti un selfie con la gente, devi stare in mezzo alla gente. La tua dimensione diventa non quella cattedratica, “frontale”, ma il bagno di folla, l’immersione. Mi scatto una foto assieme a voi, perché sono come voi, sono voi.
Con Salvini il cerchio si chiude. Resta da chiedersi chi siano questi voi, o noi. Di che cosa siano figli. Vediamo almeno un paio di categorie.
Innanzitutto l’antipolitica, se per politica intendiamo un’attività distinta da ogni altra, estremamente codificata (dalla Costituzione, dalle leggi ordinarie, e anche dalle consuetudini) ed estremamente responsabilizzata. Per antipolitica non si intende ovviamente il rifiuto del leader o delle gerarchie politiche, il governo del popolo, la democrazia partecipata, anzi, tutto il contrario: la ricerca di un leader, la glorificazione di un leader, purché sia “de noartri”, pane al pane e vino al vino, semplice e diretto, sciolto dai vincoli, da lacci e laccioli (nazionali o europei, afferenti alla giurisprudenza o alle leggi dell’economia). Un leader che sa far festa quando ci vuole (il linguaggio del populismo è fatto di frasi fatte, “quando ci vuole ci vuole” lo capiscono anche i bambini, Berlusconi è stato un maestro nell’usare metafore calcistiche, che tutti gli italiani hanno dentro), ma che sa spendersi in prima persona, se necessario.
L’antipolitica realizza in qualche modo il sogno, forse lontanamente sessantottino, di abbattere le barriere fra pubblico e privato. Il privato del politico è diventato pubblico. Ciò che faccio in privato, nelle mie vacanze, è insieme l’uno e l’altro. E’ personale e istituzionale. Invade le sfere del costume, dell’intrattenimento. E’ il trionfo del marketing, la definitiva vittoria della forma sul contenuto, del significante sul significato. E pazienza se quelle forme, quei significanti, sono un po’ grotteschi (ovviamente politici e potenti in costume o persino nudi li avevamo già visto in passato, da Agnelli a Casini, ma in genere erano paparazzati). Mi alzo la mattina per trebbiare il grano, sono un lavoratore. Faccio il dj alla consolle, sono giovane, basta con i gufi, divertiamoci. Faccio il bagno nel Grande Fiume, sono in salute, sono forte (beh, questo non è italiano, lo riconoscerete, spero).
In secondo luogo, l’antiintellettualismo. Che significa, almeno nel nostro Paese, il rifiuto di tutto ciò che è, anche lontanamente, “di sinistra”. Per decenni si è detto che la sinistra in Italia non era mai andata al governo (vero, all’epoca della Guerra fredda era implicito che un partito comunista non potesse andare al potere in Italia), ma aveva preso in mano tutte le leve della cultura. Università, editoria, cinema, musica ecc. (con la non trascurabile eccezione della Tv di Stato, fino agli anni 70). La sinistra magari non andava al governo, ma in tutto ciò che era colto, complesso, persino cerebrale e sofisticato, primeggiava. Neanche i suoi elementi più outsider erano veramente uomini nel popolo, in questo senso. Nemmeno quando del popolo si innamoravano, come Pasolini. Rimanevano degli intellettuali. Già all’epoca vi erano rigurgiti di anti intellettualismo (Sordi che sputtana le mostre d’arte contemporanea, Fantozzi che spernacchia “La corazzata Potemkin”), ma si trattava, un po’ bizzarramente, di un antiintellettualismo di sinistra, o comunque non sgradito alla sinistra. Perché di fatto la sinistra dominava nella cultura ma anche nella controcultura, un capolavoro. Faceva la tesi e l’antitesi. L’Internazionale ufficiale e quella “hendrixiana” degli Area. Berlinguer e Benigni. La sparuta destra “intellettuale”, se esisteva, poteva spendersi forse tre o quattro nomi, sempre quelli, e magari senza che c’entrassero veramente nulla (Ezra Pound, poveretto!). Oppure, ci rinunciava e basta.
In quanto al vero dominatore della scena politica dell’epoca, il Centro, scriveva trattati ponderosi (Moro, Spadolini) o memorie argute (Andreotti). Non erano certo le cose più cool, ma avevano un loro perché, ed un loro spessore. La pubblicistica cattolica – la grande alleata – faceva il resto, esprimendo peraltro una pluralità di vedute. Possiamo azzardare una tesi? Il Centro iniziò a cedere quando comparvero personaggi come Formigoni (che dichiarò di non leggere davvero i libri, ma dei sunti che gi preparavano i collaboratori).
Oggi la categoria del culturale/intellettuale sembra antidiluviana. Umberto Eco – e nomino Eco non a caso, perché era un raffinato intellettuale di sinistra ma anche un intellettuale “popolare”, che scriveva romanzi di successo, sapide Bustine di Minerva su L’Espresso, divertenti e corrosivi ritratti di Mike Bongiorno – si troverebbe spaesato più che mai. La cultura è residuale. Smuove pochi voti, poche passioni. Solo sparute nicchie la coltivano come un elemento di distinzione ed identificazione. Al più, si trincera dietro i linguaggi specialistici, la “neutralità” dell’informatica (Baricco non è andato abbastanza a fondo in questo), persinomla neutralità della satira (Checco Zalone). Il massimo della sinistra non è politico, è prepolitico (Greta, la difesa dell’ambiente).
Resta una cosa su cui riflettere. Se il leader è lo specchio del popolo, cos’è oggi il popolo? Possiamo ancora disaggregare questa categoria ambigua, guardarci dentro? E con quali strumenti? Parlare di classi sociali sembra impossibile. Non perché non esistano ma perché ricchi e poveri condividono le stesse aspirazioni, la medesima mediocre visone del mondo, di cui Briatore è l’espressione massima. Le categorie dell’istruzione, della scolarizzazione? In parte abbiamo già detto, e in ogni modo, l’Italia che emerge dai social è sì un’Italia gretta e ignorante, ma è anche un’Italia che un po’ di studi li ha fatti, sovente fino alla laurea. L’ideale politico? Forse. Ma è roba per pochi. La religione? A me pare che quella del Papa sia la voce di uno che grida nel deserto.
Qual è dunque il cemento che tiene insieme questo popolo? Forse un pastone di droghe massmediatiche (essenzialmente veicolate dalla rete, più ancora che dalla tv) e nazionalismo. Un pastone che coniuga l’eterno scetticismo e l’eterno familismo italiano con gli ambigui messaggi lanciati dalla politica nell’era del tramonto dell’ideale europeista e delle lusinghe della globalizzazione: prima gli italiani, aiutiamoli a casa loro, Merkel “culona”, non siamo servi dei banchieri, e così via.
Qualcuno potrebbe pensare che si sia arrivati ad un estremo, alle colonne d’Ercole, che non ci possa spingere più in là. Sbaglia, c’è ancora una frontiera da superare. Sì, avete capito bene, ne abbiamo visto le avvisaglie a Genova, o con la vicenda Cucchi, o con l’allegro bendaggio di un sospettato in una caserma di polizia, esibito sconsideratamente. Non vi va che evochi il manganello? D’accordo, allora: ruspa!