Nei giorni scorsi, nel Mar Mediterraneo, alcune navi da guerra avrebbero condotto azioni offensive verso navi petroliere di altri paesi. L’ultimo caso quello della petroliera britannica al largo delle coste iraniane: navi militari iraniane avrebbero cercato di fermarla ma il blocco sarebbe stato evitato grazie all’intervento della fregata della Royal Navy HMS Montrose.
Casi isolati, secondo i media. Niente di più sbagliato. Negli ultimi decenni sono state molte le guerre in Medio Oriente e nel Mediterraneo. E (quasi) sempre oggetto del contendere non sono state nè le presunte dittature nè i principi religiosi nè gli scontri tra etnie diverse: la causa è il petrolio. In barba alle promesse fatte da molti anni è questa fonte energetica primaria che regola le scelte geopolitiche di interi continenti.
Il “greggio”, ovvero il petrolio non lavorato, è essenziale non solo come fonte energetica ma anche come carburante per autotrazione e per la realizzazione di materie plastiche (il cui mercato, in barba alle promesse fatte, anche all’ultimo incontro dei G20 ad Osaka, continua a crescere esponenzialmente). E il fatto che questa risorsa sia reperibile solo in alcune aree geologiche influenza non poco i rapporti tra i paesi.
Per rendersene conto basta scorrere la graduatoria dei primi undici paesi al mondo con le maggiori riserve petrolifere mondiali (dati Factbook della CIA).
Una lista che spiega molto della reale ripartizione dei poteri a livello mondiale (basti pensare che l’Italia è solo 49esima in quest’elenco e paesi come Giappone o Germania sono ancora più indietro). E degli interessi per accaparrarsene.
All’undicesimo posto ci sarebbero gli Stati Uniti d’America con “solo” 36,5 miliardi di barili, Gbbl. Una quantità rilevante, ma poco, troppo poco per i consumi interni. Con solo 8 milioni di barili al giorno disponibili, trovare mercati “affidabili” dove rifornirsi è fondamentale per l’industria americana. Dal punto di vista energetico, poi, la conversione a fonti alternative e rinnovabili non sembra reale, almeno nel breve periodo: a dimostrarlo il fatto che lo Stato che ha dimostrato il maggior interesse per l’eolico sarebbe il Texas, ovvero proprio uno dei maggiori estrattori di petrolio (dati American Wind Energy Association).
Una coincidenza o un aspetto importante il fatto che, da decenni, gli USA sono coinvolti (più o meno direttamente) in tutte le guerre che si sono svolte in Medio Oriente e in paesi dove le riserve di petrolio sono altissime? Tanto più che l’attenzione dei “paladini della democrazia mondiale” verso altri paesi dove pure esistono gravi violazioni dei diritti umani (si pensi a molti paesi dell’Africa centrale) è stata praticamente nulla.
Al decimo posto nella graduatoria dei paesi produttori c’è la Nigeria. “In Nigeria non c’è alcuna guerra, ma scontri” avrebbe detto recentemente il Ministro degli Interni italiano parlando del paese che, nel 2015, gli negò l’accesso per mancanza di visto sul passaporto (una missione nata per “aiutare a casa loro” gli immigrati disse il segretario della Lega ma formata da “imprenditori e assessori regionali” del Nord, anch’essi, a quanto pare, sprovvisti di visto). I numeri dicono diversamente: dal 2016, il 7,8% dei conflitti armati in Africa ha avuto luogo proprio in Nigeria, un quarto di tutti i decessi civili violenti in Africa si è verificato in Nigeria. Oggi questo paese, ricchissimo di petrolio (e altre materie prime) è il più pericoloso per i civili africani: si conta che in sette anni di insurrezione armata il gruppo islamista Boko Haram abbia ucciso circa 15mila persone, costringendo alla fuga più di due milioni. ”Guerre impure” come le ha chiamate Paul Viriliò. Ma che non bastano a distogliere l’interesse per questo paese. La Nigeria occupa solo il tredicesimo posto nel Fragile States Index redatto dal think tank americano Found for Peace, che la presenta come una minaccia per la sicurezza internazionale. Eppure, nonostante guerre e pericoli internazionali, Goldman Sachs l’ha inserita nei cosiddetti Next-11, i paesi emergenti nell’economia del XXI secolo, considerandola un “hub strategico” per le nuove tecnologie. Molto strano, dato che solo il 38% dei nigeriani è connesso a Internet. La vera ragione di tutto questo interesse per la Nigeria è il petrolio.
Al nono posto della graduatoria dei paesi con le maggiori riserve petrolifere troviamo la Libia (con 48,4 Gbbl). La “pace” imposta dal dittatore Gheddafi per anni ha fatto comodo a molti paesi occidentali. E sarebbe questo il motivo per cui non è ancora stato possibile definire il “dopo Gheddafi” e la guerra fratricida tra i gruppi etnici in campo non sembra avere fine.
All’ottavo posto tra i paesi che dispongono le maggiori riserve di petrolio greggio c’è la Russia con 80 Gbbl (non moltissimi se si pensa all’estensione), preceduta all’ottavo dagli Emirati Arabi Uniti con 97,8 Gbbl. Resisi conto del calo delle entrate legato al calo dei prezzi del petrolio (imposti dall’OPEC per mantenere il monopolio del mercato), gli EAU hanno cercato di diversificare le proprie “entrate” concentrandosi sul turismo e sul commercio: in breve sono diventati meta turistica ambita e punto di contatto tra i mercati medio-orientali e i paesi occidentali. Ma non è bastato, così hanno deciso di scendere in guerra e hanno attaccato anche loro lo Yemen.
Parlare di guerre e petrolio per i paesi che occupano il sesto e il quinto posto di questa graduatoria richiama alla mente le guerre per la “democrazia” e per i “diritti internazionali” tra Kuwait (che possiede 101,5 Gbbl) e Iraq (142,5 Gbbl). Anche in questo caso, era il petrolio il vero oggetto del contendere: Baghdad accusò il Kuwait di danneggiare il prezzo sul mercato internazionale con la sua sovrapproduzione di petrolio e affermò di avere “storicamente” diritto ai territori del Kuwait accusandolo anche di rubare petrolio dal suolo iracheno mediante il cosiddetto “slant drilling”. Alla fine del conflitto più di 600 pozzi erano stati dati alle fiamme e molti altri danneggiati in modo permanente.
Al quarto posto della classifica dei paesi per riserve di petrolio c’è proprio il paese sulle prime pagine dei giornali di questi giorni: l’Iran (con 158,4 Gbbl). La vera ragione dell’”interesse” degli USA per la democrazia di questo paese e per la sicurezza internazionale non ha nulla a che vedere con l’arricchimento dell’uranio e con il pericolo che vengano costruite armi nucleari (se così fosse, gli USA avrebbero dovuto fare molto di più verso paesi come India o Pakistan o verso gli “amici” israeliani che di ordigni nucleari ne possiedono già, e in misura enormemente maggiore). Quella tra Iran e USA è una partita a scacchi (da un lato l’abbattimento di un drone Usa da parte dei Guardiani della Rivoluzione, dall’altro l’ordine di Trump, tempestivamente ritirato all’ultimo minuto, di scatenare la rappresaglia) che ha come premio il controllo del petrolio (si pensi all’attacco alle petroliere di pochi giorni fa, da una parte, e alla pretesa di esportarlo dovunque, dall’altra).
Unico paese, forse, a non essere stato coinvolto così attivamente in guerre pur disponendo di enormi quantità di petrolio è il Canada (terzo in questa classifica). Il motivo potrebbe essere legato alla qualità del petrolio canadese, estremamente costoso da estrarre e, quindi, poco appetibile per i mercati.
Tra i maggiori produttori mondiali di petrolio c’è l’Arabia Saudita che occupa il secondo posto della nostra classifica. Il petrolio è vita per questo paese. Da esso derivano il 90% degli introiti delle esportazioni, il 70% delle entrate statali e il 45% del PIL. Ma il petrolio è essenziale per l’Arabia Saudita anche sotto il profilo del controllo del territorio: il mercato nei paesi dell’Estremo Oriente assorbe il 53% delle esportazioni di prodotto raffinato e il 49% di quello grezzo. Un posto dove le guerre non vengono fatte solo con le armi (e quelle comprate dall’Arabia Saudita sono tantissime, da tutti i produttori mondiali che le hanno vendute incuranti degli accordi internazionali sottoscritti), ma con il petrolio: l’Arabia Saudita avrebbe chiuso alcune delle pipelines petrolifere che attraversavano il territorio di altri paesi (come la “Trans-Arabian Pipeline” o la “Iraq-Saudi Arabia Pipeline”). Le riserve di greggio sono lo strumento geopolitico che serve al paese per esercitare forti pressioni a livello internazionale (si pensi agli incarichi ricevuti all’ONU o ai rapporti con gli USA o all’interesse verso molti paesi nordafricani).
Primo paese al mondo per riserve petrolifere è il Venezuela, con 300,9 Gbbl. Una quantità largamente superiore a quella dell’Arabia Saudita (“solo” 266,5 Gbbl) e quasi il doppio del terzo paese, il Canada (169,7 Gbbl). Sarebbe questa la vera ragione dell’interesse per la politica interna di questo paese di molti governi come quello degli USA, ma anche di paesi dell’UE (inclusa l’Italia). Non hanno nulla a che vedere con la democrazia o con la politica. Lo scopo è non perdere l’occasione di stringere la mano da amici a chi, una volta salito al potere, controllerà la più grande riserva mondiale di petrolio greggio del pianeta! Hugo Chavez, presidente dal 1999 al 2013 e padre della riforma bolivariana, l’aveva capito bene: per questo prese una posizione chiara proprio sul petrolio. Oggi le pressioni internazionali a favore dei due contendenti, Juan Guaido, leader dell’opposizione e Nicolás Maduro presidente pro tempore della Repubblica Bolivariana del Venezuela, non hanno niente a che vedere con la democrazia nè con l’economia del paese nè con il benessere dei cittadini: riguardano le riserve petrolifere.
Ciò che sorprende e che dovrebbe far riflettere (e, invece, non se ne parla mai) è che la ricchezza derivante dal possedere la maggiore riserva di petrolio greggio del mondo, non sia bastata al paese per evitare una delle peggiori crisi economiche mai viste sul pianeta e disagi per la popolazione che secondo molti sono una delle cause dei flussi migratori di milioni di persone verso gli USA: fuggono dalla fame, forse ignari della ricchezza su cui camminano. In Venezuela, nel 2012 (ultimo dato ufficiale), il Reddito Nazionale Lordo è di 12500 dollari, ma da allora un’inflazione esplosiva ha causato peggioramenti inenarrabili. E senza che l’enorme quantitativo di petrolio a disposizione potesse fare qualcosa per fermarla.
E’ questo che che accomuna quasi tutti i paesi con le maggiori riserve di petrolio del mondo (oltre al fatto di essere sempre in guerra): di tutta questa ricchezza, ai cittadini non arriva quasi nulla. Il più “povero” degli undici paesi per riserve di petrolio greggio è anche quello con il reddito pro capite lordo più elevato: gli USA con un RNL di 55200 dollari.
Per molti paesi arabi ricchi di petrolio, il dato del RNL non basta a comprendere la situazione reale: è l’indice di Gini che spiega come stanno davvero le cose (in realtà la ricchezza è concentrata nelle mani di poche, pochissime persone, mentre la stragrande maggioranza delle popolazione ha un reddito minore). Per questo sapere che al sedicesimo posto globale per RNL c’è il Kuwait (con 49300), al ventiduesimo gli Emirati Arabi Uniti (con 44600) e al 34esimo l’Arabia Saudita (con 25140) non basta a capire come si vive realmente in alcuni dei paesi che controllano le maggiori riserve petrolifere del pianeta.
Stessa cosa in Libia, un tempo ago della bilancia dei rapporti tra produttori di petrolio dell’OPEC e extra OPEC: l’ultimo dato risale al 2014 e parla di un RNL di 7800 dollari, ma in calo vertiginoso (quindi da allora è certamente sceso e di molto). Ancora più basso quello di Iran e Iraq: entrambi questi paesi non vanno oltre la metà della classifica dei paesi del mondo per RNL.
Ciò che davvero accomuna tutti (meno uno) i paesi che possiedono le maggiori riserve petrolifere mondiali è questo: per decine e decine di milioni di persone, l’oro nero non significa nulla, non vuol dire ricchezza, ma solo guerre, fame, sangue e morti. Significa essere prede o predatori agli ordini di chi fa di tutto per controllare e gestire questa risorsa, ancora così preziosa (nonostante i danni enormi prodotti sull’ambiente).