Che il Partito Democratico sia alla ricerca di un campione appare chiaro. La sfida non è delle più semplici e la Casa Bianca è forse il più piccolo fra i premi in palio. Perché, in fondo, la presidenza non è che un mezzo per raggiungere uno scopo e i Democratici rischiano di pagare un prezzo carissimo in caso di sconfitta nel 2020. Con i cambiamenti climatici che richiedono una risposta tempestiva, una politica progressista da portare avanti e la possibile nomina di nuovi giudici della Corte Suprema nei prossimi anni, un secondo mandato Trump appare – per il partito di Jackson – quantomeno da scongiurare.
Il campione, però, ancora non c’è. È vero, Bernie Sanders è quello che più di tutti ha saputo plasmare il Partito Democratico con le sue idee ed è il veterano delle primarie 2016, dal quale è uscito sconfitto da assoluto protagonista: ma non basta. Per adesso, fra le fila dei candidati Democratici, nessuno risplende come un Obama o un Kennedy e tutti hanno dei difetti che Trump, giocando ormai in casa, potrebbe sfruttare durante la sua campagna elettorale.
A differenza del 2016, in cui il numero dei candidati si era fermato a sei, ad oggi sono dieci le figure politiche che hanno avviato la fase esplorativa della candidatura o la raccolta fondi vera e propria: Cory Booker, Pete Buttigieg, Julian Castro, John Delaney, Tulsi Gabbard, Kristen Gillibrand, Kamala Harris, Amy Klobuchar, Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Oltre a loro, almeno un’altra decina di politici starebbero vagliando la possibilità di scendere in campo (Joe Biden e Beto O’Rourke in primis). Sanders sarebbe, per adesso, il favorito dai sondaggi, seguito quasi sempre dalla Harris e – eventualmente- secondo soltanto a Joe Biden, moderato Vicepresidente dell’era Obama. Ma, mentre le primarie del 2016 rappresentarono la sfida fra due visioni opposte della compagine Democratica, la nuova corsa alla nomination espande l’offerta politica ad un ventaglio di sfumature che, partendo dal Socialismo Sandersiano, termina nel centrismo “pigliatutto”.
Non ci sono più divisioni interne sui temi sociali. Tutti i democratici ormai si oppongono al conservatorismo trumpiano chiamando in causa le unioni civili, il diritto all’aborto, una stretta sulle armi e una nuova visione sull’immigrazione. È l’urgenza di cambiamenti economici che distingue le piattaforme politiche dei candidati, muovendosi su temi introdotti dalla Crisi del 2008, influenzati dal socialismo di Sanders e dalla visione di Trump di protezionismo.
Disegnando una linea che vada dal più rivoluzionario al più moderato, è possibile dividere in tre macrogruppi i principali candidati alle primarie. Partendo dal centro troviamo Amy Klobuchar, senatrice dal Minnesota dal piglio pragmatico e unica – per adesso – a respingere le idee progressiste tacciandole di utopismo. Durante un’intervista per CNN, la senatrice, senza troppi fronzoli, ha lodato gli intenti del Green New Deal, escludendo però lo “smantellamento” dell’industria americana. Parlando di sanità ed istruzione, Amy Klobuchar ha negato un suo appoggio alle idee di “Medicare-for-all” e di Università gratuita.
Il secondo gruppo, spostandosi a sinistra, rappresenta la nuova avanguardia. Cory Booker, Kamala Harris e Kristen Gillibrand sono la nuova classe dirigente del partito influenzata dalle idee Sandersiane, progressisti quanto basta ma ancora sufficientemente centristi, capaci, quindi, di attrarre voti dei più ortodossi e dei moderati allo stesso tempo, a scapito di una piattaforma ideologica traballante e non sempre coerente al massimo. Cory Booker ha dato l’endorsement al Green New Deal, mantenendosi però su posizioni moderate nonostante la necessità di combattere i cambiamenti climatici. La Gillibrand sta portando avanti una battaglia sul congedo parentale universale mentre Kamala Harris, ortodossa del Medicare-for-all, sarebbe tornata temporaneamente sui suoi passi, annunciando di essere aperta a soluzioni che non cancellino le assicurazioni private.
La sinistra del partito, invece, è quella rappresentata dai senatori Warren e Sanders. I due, pur molto diversi (lei si definisce capitalista, lui democratico socialista), condividono posizioni estreme su tasse e welfare. Elizabeth Warren sta portando avanti una campagna populista contro la corruzione a Washington e, come Trump nel 2016, ha espresso il desiderio di ripulire la palude politica americana. Sanders, invece, fa appello agli elettori con più difficoltà economiche, proponendo un Medicare universale che andrebbe a sostituire le assicurazioni private con una grande ed unica assicurazione nazionale. Il Senatore del Vermont, inoltre, si sta battendo per l’istruzione universitaria gratuita e il salario minimo garantito a $15/ora.
Da questa rapida disamina dei candidati chiave appaiono subito chiari alcuni problemi da superare per sconfiggere Trump. Bernie Sanders e Kamala Harris sono i nomi più quotati, secondo i sondaggi, per una nomination. La seconda, nonostante sia più giovane e sia afroamericana, non è ancora riuscita a conquistare i cuori dei millennials che, come ci insegnano le scorse primarie, battono per Sanders più che per chiunque altro. Ma il socialista del Vermont non ha la strada spianata. Innanzitutto, a differenza della Harris, potrebbe non avere un forte appeal nei confronti delle minoranze in quanto “troppo bianco” e forse troppo anziano. Secondariamente, nell’era del #Metoo e nonostante Sanders sia stato il propulsore della campagna di Alexandria Ocasio-Cortez (per fare solo un nome), il democratico socialista deve vedersela con alcune voci di molestie sessuali interne al suo vecchio staff del 2016. Poi c’è la politica estera, tema assai poco toccato per adesso dai vari candidati ma sicuramente polarizzante. Sanders ha più volte attaccato Israele e si è smarcato da un possibile intervento americano in Venezuela, mettendosi in una posizione non del tutto gradita ai moderati.
Come suggerisce il Wall Street Journal, poi, il vero ostacolo alla nomination di Sanders sarebbe addirittura il suo essere troppo simile agli altri. Ormai, grazie alla sua enorme influenza sui democratici, molti dei candidati in campo si stanno battendo per nuove politiche sociali ed economiche. Sanders, allora, potrebbe essere costretto a spostarsi ancora più a sinistra, promettendo un salario minimo a $20/ora, riforme del welfare ancor più radicali e una politica estera incentrata sui diritti umani. Ma, ovviamente, sarebbe facile per il GOP paragonarlo ad un Diavolo Socialista a quel punto.
Sanders ha promesso di correggere alcuni errori commessi in passato e di prestare maggiore attenzioni alle tematiche di genere e alle minoranze. Intanto, però, in caso di nomination, dovrà fare i conti con il maggiore dei suoi problemi: l’economia statunitense che, nonostante l’opinione pubblica sulla guerra commerciale ed i dazi, sta andando molto bene. Come può, Sanders, proporre idee così rivoluzionarie da smantellare il sistema economico attuale? Il Green New Deal per le nuovi fonti rinnovabili, il servizio sanitario per tutti che graverà trilioni di dollari sulle casse federali, l’istruzione gratuita, le megatasse per le aziende e nuove regole più stringenti. Alcuni elettori, specialmente i moderati ed i trumpiani dell’ultimo minuto, potrebbero non capire l’urgenza di misure tanto drastiche che potrebbero minare alla nuova crescita del paese.
Poi, dal punto di vista ideologico, Sanders fa appello al 99% dei cittadini americani per avviare una nuova lotta di classe contro il ricchissimo e aristocratico 1%. Come può pensare di avere tutti dalla sua parte? Sarebbe sciocco crederlo dal momento che lo stesso Trump, malgrado il suo capitale, è stato a modo suo un paladino anti-casta nel 2016 e molti potrebbero preferire le sue ricette a quelle del Senatore del Vermont.
Per adesso, quindi, ci sono molti motivi per dubitare di una vittoria di Sanders nel 2020. Lo scoglio delle primarie non è da sottovalutare, soprattutto se dovesse presentarsi Joe Biden a reclamare la prateria moderata ancora in cerca di un campione. Secondariamente, dovrà fare i conti con un Trump non più anti-establishment e con un’economia forte a sostenerlo. Il popolo americano ci ha ormai abituato alle sorprese politiche ma, soprattutto parlando di economia, nel 2020 potrebbe scegliere la strada vecchia per la nuova.