Sta succedendo qualcosa di molto particolare, e grave, se la magistratura chiede di processare un ministro della Repubblica in carica, che gode di consenso popolare crescente, per un reato “comune”, come il sequestro di persona aggravato, che prevede una pena detentiva molto elevata (da tre a quindici anni di reclusione). Anche perché la richiesta di autorizzazione a procedere non si riferisce ad uno dei quei fatti, come la corruzione o l’abuso di ufficio, ai quali siamo purtroppo più abituati e che appaiono maggiormente “tipici” di chi esercita il mestiere della politica.
Invece essa si riferisce ad un comportamento – il rifiuto di autorizzare lo sbarco di 177 migranti salvati dalla nave italiana Diciotti della Guardia costiera, finché in sede europea non fosse stata decisa la loro ripartizione – non solo ammesso come tale dal ministro in questione, il leghista Matteo Salvini, ma anzi rivendicato come direttamente espressivo di un programma politico, e concordato, pur con diversa sfumatura, anche con la componente 5Stelle del governo. Un atto intrinsecamente politico dunque, e affatto occasionale per quanto scaturito dalla dinamica degli avvenimenti accaduti nell’agosto del 2018 ma rispondente ad una visione strategica (discutibile o meno), e persino annunciata in campagna elettorale dalla Lega, della questione della gestione dei flussi migratori e dei rapporti controversi tra l’Italia, luogo di primo ed immediato accesso, e l’intera comunità europea.
Una situazione paradossale e ingiustificata, quella determinata dall’iniziativa del Tribunale dei Ministri di Catania che, in dissenso dalla locale Procura, si è rivolta alla Camera di appartenenza di Salvini, il Senato, con la richiesta di autorizzazione a procedere? Un caso di ingerenza indebita nei confronti del potere politico il cui esercizio è in sé discrezionale? Un attacco all’equilibrio tra i poteri dello Stato?
Il rischio, anche in questo caso, è che sfuggano i termini esatti del quesito al quale, a breve, i senatori dovranno rispondere, al netto delle polemiche politiche, delle strumentalizzazioni di parte a seconda delle opinioni personali o partitiche sul tema della gestione dei migranti e sulla figura, come ministro e come politico, di Salvini, e degli stessi equivoci sulla natura del giudizio che dovrà essere espresso.
Così alcuni politici ritengono che si debba decidere se Salvini si sia mosso “secondo un interesse privato” piuttosto che seguendo una legittima e pur discutibile “indicazione politica di governo”; altri, viceversa, riconoscendo che Salvini abbia certamente esercitato un mandato politico (oltre tutto ampiamente condiviso dal governo), credono che la questione sia quella di stabilire se il mandato politico contempli o meno la “possibilità di commettere dei reati”, fermo restando che poi spetti alla magistratura stabilire se questi siano stati effettivamente realizzati.
Così persino tra gli studiosi di diritto, che citano la legge costituzionale (la n. 1 del 1989) disciplinante i casi di autorizzazione a procedere, non manca chi semplicemente ritenga che ci si trovi davanti ad un atto politico del governo, tale da determinare una “assoluta insindacabilità da parte della magistratura”: saremmo dunque in presenza, con l’iniziativa del Tribunale dei Ministri, di una “trasformazione costituzionale” del rapporto tra potere esecutivo e giudiziario.
Il contrasto permanente anche su questo tema tra 5Stelle (che debbono conciliare le radici giustizialiste con la realpolitik della tenuta del governo) e Lega (che deve conciliare la salvaguardia personale del suo leader con la rivendicazione politica di un gesto), l’interferenza tra questa ed altre questioni controverse tra i due partiti di governo (vedi la Tav Lione – Torino, le grandi opere infrastrutturali, il reddito di cittadinanza): tutto rischia di spostare il dibattito altrove, stravolgendo i termini del problema e impedendo un chiarimento di fondo.
Eppure l’importanza del bivio istituzionale che si profila è ben più rilevante di una decisione sulle sorti personali o politiche di un ministro pur discutibile come Salvini, e non può essere banalmente ridotto ad uno scontro (l’ennesimo?) tra politica e giustizia, ciascuno proteso verso la rivendicazione del proprio potere, magari anche predominante rispetto all’altro. Ebbene, un chiarimento imprescindibile, per valutare la correttezza dell’azione del Tribunale dei Ministri e definire i termini della questione, discende proprio dai principi stabiliti dalla legge (avente rilievo costituzionale) in materia di autorizzazione a procedere per reati attribuiti ai ministri.
La magistratura interpella la Camera di appartenenza del Ministro e questa è chiamata a concedere o negare l’autorizzazione richiesta rispondendo ad un quesito di fondo: se il ministro abbia agito “per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”.
Non spetta dunque al Parlamento stabilire se Salvini abbia o meno commesso un reato, giacché questo, in un sistema costituzionale liberale fondato sulla divisione dei poteri, compete solo alla magistratura. Non è questa la materia del giudizio che il Senato dovrà formulare. Né rilevano a questo proposito le osservazioni di vario tipo che indirettamente insistono sempre questo punto, essendo indiscutibile, ed anzi ammesso, il fatto storico che ha dato origine all’accusa di sequestro: è indubbio che, ordinando alla motonave Diciotti di non attraccare nel porto di Catania e di non far sbarcare i 177 migranti, e avendo mantenuto questo ordine per un tempo significativo, cinque giorni, nelle acque territoriali italiane quali erano quelle antistanti la città siciliana, vi sia stata una indubbia imitazione della libertà personale degli stessi migranti (oltre che per il vero anche degli stessi marinai italiani ai quali senza giustificato motivo si impediva di raggiungere la costa).
D’altra parte la motivazione assunta dal governo (utilizzare questo gesto per costringere i paesi europei ad assumersi le loro responsabilità nell’accoglienza dei profughi) dimostra che il trattenimento di quelle persone aveva una finalità strumentale rispetto a un disegno politico discutibile ma in sé legittimo, e non rientrava in alcuna delle “scriminanti” previste dal codice penale. In una parola: non c’erano ragioni di ordine pubblico specifiche a impedire quello sbarco (la sicurezza pubblica non era pregiudicata dall’arrivo di 177 persone) ma appunto ragioni (discutibili ma legittime) di politica internazionale.
E tuttavia, se non compete alla politica il ruolo di accertamento del reato, ugualmente non spetta alla magistratura, in uno stato di diritto fondato sulla separazione dei poteri, il compito di giudicare le ragioni di quella scelta politica, e soprattutto se essa sia stata rispondente ai criteri stabiliti dalla legge costituzionale: di qui la correttezza della decisione del Tribunale dei Ministri di valutare proprio questo punto, e dunque di dire se Salvini abbia o meno rispettato i parametri della tutela di un interesse dello Stato e del perseguimento di un interesse pubblico.
A ben vedere, la decisione con la quale la Procura di Catania ha chiesto l’archiviazione del procedimento a carico di Salvini sul presupposto che egli abbia compiuto un atto politico – insindacabile – con quell’ordine si espone paradossalmente ad una possibile critica di interferenza nel settore della politica, essendosi assunta essa, la magistratura, il compito proprio del potere legislativo, cioè la valutazione della correttezza politica dell’agire di Salvini.
Ora, la delicatezza della questione sottoposta al vaglio del parlamento, al netto di polemiche e strumentalizzazioni, si riduce a questo punto essenziale: non basta la natura politica (e non privata) dell’atto perché il comportamento di un ministro sia sottratto al giudizio della magistratura con la negazione dell’autorizzazione a procedere.
Davvero basta che un ministro agisca per motivi politici, si appelli al proprio programma elettorale, indichi ragioni di politica internazionale a sostegno del proprio agire perché ogni comportamento sia legittimo e consentito? La legge, sulla valutazione dei fatti aventi rilievo penale, dà una risposta negativa a questo quesito: l’esercizio del potere politico ha dei limiti ben individuati nel testo costituzionale. Un ministro può non incorrere nel sindacato della magistratura se commette un reato nell’esercizio dei suoi poteri, ma solo a condizione che lo abbia fatto per tutelare un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per perseguire un interesse pubblico preminente.
Di questo dunque alla fine si tratta, occorre individuare nell’azione di governo non già qualsivoglia motivazione politica ma una ragione che rivesta un pregio di valore primario, che ovviamente dovrà essere contemperato – in un sistema costituzionale complesso come il nostro e basato sul principio dei “pesi e contrappesi” – con altri di pari natura. Il riferimento generico alla natura politica dell’atto compiuto non è sufficiente per risolvere il dilemma che si pone all’attenzione dei senatori. Ma occorre inoltrarsi in un sentiero giuridico-istituzionale impervio: quello dei limiti espliciti od impliciti inerenti l’esercizio di ogni potere dello Stato.
Il problema del caso Diciotti allora sembra essere quello di valutare se il trattenimento a bordo della nave per un tempo significativo, certamente lesivo del diritto alla libertà personale tutelato dall’art. 13 Cost e dall’art. 5 Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo), e quindi integrante l’ipotesi di reato contestato dai giudici, si ponga in contrasto con altri diritti individuali aventi un rilievo assolutamente peculiare nel nostro ordinamento.
Il potere politico non ha assoluta e libera disponibilità di tutti i diritti fondamentali anche quando vi sia la più alta ragione di Stato, essendosi impegnato, lo Stato italiano, a rispettarne alcuni in ogni circostanza. Così, il limite all’esercizio pur legittimo del potere politico è individuabile nella stessa normativa costituzionale attraverso il richiamo a quella sovranazionale – approvata dall’Italia – nell’art. 15 Cedu, secondo cui neppure nei casi estremi di urgenza, come «in caso di guerra o in caso di pericolo pubblico che minacci la vita della nazione», lo Stato può derogare alla tutela dei diritti garantiti agli artt. 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti), 4 § 1 (divieto di schiavitù) e 7 (principio del nullum crimen sine lege).
Se il sistema costituzionale italiano non prevede deroghe alla possibilità di comprimere diritti fondamentali dell’individuo, la questione in concreto che si pone con il caso Diciotti è alla fine se sussistessero nell’agosto 2018 quelle ragioni di particolare urgenza per iniziative lesive di diritti fondamentali e se e in quale modo l’ordine (politico) dato dal ministro Salvini abbia compromesso (o meno) il diritto alla vita, e soprattutto quello ad un trattamento non inumano o degradante di quei 177 esseri umani presenti sul territorio nazionale.