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November 7, 2018
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Midterm: quei successi dei “socialisti” e l’urgenza per i Dem di scegliere una strada

Il carisma di alcuni dei candidati sostenuti da Bernie Sanders e dai Democratici Socialisti impone al partito una riflessione che dal 2016 cerca di evitare

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
Midterm: quei successi dei “socialisti” e l’urgenza per i Dem di scegliere una strada

Alexandria Ocasio-Cortez (06-03-2018, JenniferMason, Queens Pride Parade).

Time: 5 mins read

Le elezioni di Midterm, ormai è ufficiale, hanno riconsegnato ai democratici la Camera, ma hanno assicurato ancora più saldamente il Senato nelle mani di Donald Trump. Ma già mesi prima del fatidico 6 novembre, sono state dipinte – in primis dallo stesso Commander-in-Chief – come un referendum sulla sua Presidenza. Interpretazione indubbiamente legittima, ma che non risolve il senso del voto di ieri. Perché se è vero che da questi risultati si può trarre più di qualche riflessione sulla Casa Bianca del miliardario newyorkese, lo stesso si può dire rispetto ai suoi avversari democratici.

Un volgo, quello dem, perlomeno “disperso” (per parafrasare il grande Alessandro Manzoni), ben lontano da quella “onda blu” che qualcuno si aspettava di veder apparire sulla mappa dalla serata del 6 novembre. Il fatto che i democratici abbiano ripreso la Camera e vinto competizioni-chiave non ha evitato loro di fallire nel tentativo di modificare la conformazione in prevalenza gop dei collegi elettorali , né di perdere la sfida dei governatori (con la simbolica bruciante sconfitta di Andrew Gillum – seppur a un soffio dalla vittoria – con Ron De Santis in Florida).

Di certo, al di là dei singoli risultati elettorali, già prima del 6 novembre non era difficile osservare come i democratici si siano presentati all’importante appuntamento senza aver risposto alle tante domande drammaticamente spalancatesi dopo le presidenziali del 2016. Domande, in ultima istanza, che riguardano l’identità stessa di un partito che, complice l’ostinata e poco lungimirante candidatura di Hillary Clinton, è stato percepito come amico dei poteri forti, dei grandi interessi finanziari, delle grandi multinazionali, più che interessato a rappresentare la gente e, in modo particolare, gli ultimi. Una frattura – quella tra il partito e certa parte dell’America – talmente innegabile che, dopo l’esperienza di Bernie Sanders del 2016, ha addirittura prodotto una vera e propria “corrente” del partito che qualcuno osa persino definire “socialista”.

Un termine negli Stati Uniti storicamente tabù, su cui Trump ha addirittura sventolato lo spauracchio dell’esperienza venezuelana, ma che una candidata come Alexandria Ocasio-Cortez è riuscita a sdoganare e legittimare. In effetti, i Democratici Socialisti d’America (DSA) hanno concesso il loro endorsement a 19 candidati, sia a livello statale che nazionale, per 8 dei quali la vittoria dovrebbe essere ormai certa. Tra questi, si possono ricordare Gabriel Acevero, il primo candidato omosessuale afro-latino ad entrare nell’Assemblea Generale del Maryland, Summer Lee, Sara Innamorato ed Elizabeth Fiedler, ora membri della House of Representatives della Pennsylvania,Frabklyn Bynum, divenuto giudice nella Harris County Criminal Court (Houston, Texas), e le stesse Ocasio-Cortez e Julia Salazar, la prima entrata in Congresso per il 14esimo distretto dello Stato di New York, la seconda al Senato dello Stato di New York per il 18esimo distretto.

Ma oltre a queste vittorie, sono riconducibili alla “sinistra” del partito democratico anche quelle ottenute da tutti i candidati di “Our Revolution”, iniziativa politica nata dall’esperienza di Bernie Sanders che afferma di avere tre obiettivi: “rivitalizzare la democrazia americana, rinforzare i leader progressisti ed elevare la coscienza politica”. In qualche caso, i politici sostenuti dal movimento coincidono con quelli che hanno ricevuto l’endorsement di DSA. Nel solo Stato di New York, ben cinque candidati di Our Revolution (a livello locale e nazionale) l’hanno spuntata: Jessica Ramos, Telenor Myrie, Alessandra Biaggi, Julia Salazar, Alexandria Ocasio-Cortez. Ma dell’intera truppa, ben 52 candidati sono indicati come ufficialmente vincitori, tra cui Ilan Omar e Rashida Tlaib, le prime due donne musulmane ad entrare nel Congresso. E tra i rimanenti progressisti ad aver vinto le primarie, all’elenco dei vincenti se ne aggiungerà almeno una quindicina.

Non solo: entrambi i candidati al Senato sostenuti esplicitamente da Sanders, Jacky Rosen in Nevada and Tammy Baldwin in Wisconsin, ce l’hanno fatta. Tra i “sandersiani” alla Camera, Chuy Garcia nel quarto distretto dell’Illinois ha sconfitto di 110mila voti il repubblicano in carica Mark Lorch. Vincenti anche i californiani Barbara Lee e Mike Levin. Quest’ultimo, in particolare, eletto nel 49esimo distretto, che dal 2000 non sceglieva un democratico. Altro candidato di Sanders degno di nota, Joe Neguse, che, conquistando più del 60% dei voti, è diventato il primo afroamericano eletto alla Camera di quello Stato. Quindi, anche il deputato Peter Welch è stato rieletto in Vermont, lo stesso Stato che prevedibilmente ha assicurato il seggio in Senato allo stesso Sanders.

Certo: la “sinistra sinistra” americana ha incassato anche delle sconfitte. Quella di Andrew Gillum l’abbiamo già ricordata, ma, tra i “sandersiani”, si può nominare anche Ammar Campa-Najjar in California, e i candidati di Indiana, Iowa, Pennsylvania e Wisconsin. Tuttavia, ha saputo dimostrare in molti casi di saper parlare alla gente e di possedere una visione che sembra invece mancare all’establishment democratica. Non è difficile capire perché questa tendenza “socialista” stia crescendo: nonostante gli ottimi dati economici, dalla crisi del 2008 le diseguaglianze sono aumentate drammaticamente. Non sarà un caso che un recente sondaggio Gallup abbia messo in luce come i democratici comincino a vedere più di buon occhio il socialismo del capitalismo, opinione particolarmente diffusa tra i giovani.

Non si sta cercando di sostenere che la ricetta di Bernie Sanders sarebbe vincente: i dati non consentono di dimostrare questa tesi, pur non esistendo alcuna evidenza del contrario. Alcuni distretti e Stati della “pancia” dell’ America sono profondamente e tradizionalmente conservatori, e non è difficile immaginare il destino che farebbe un candidato socialista in quelle roccaforti repubblicane. Eppure, l’esperienza dimostra che neppure l’establishment democratica stia riuscendo a modificare nettamente gli equilibri politici a proprio favore, pur disposta, nei casi più delicati, ad abdicare alle proprie istanze nel tentativo di assecondare le preferenze dell’elettorato. Prendiamo il caso dell’Indiana, Stato considerato una roccaforte repubblicana, che solo nel 2008, con Barack Obama, si discostò dalla tendenza e favorì dello 0,9% l’allora candidato democratico afroamericano. Nel Paese, sette distretti congressuali avvantaggiano generalmente il GOP, mentre i senatori dello Stato erano, fino a ieri, il repubblicano Todd Young e il democratico Joe Donnelly. Quest’ultimo ha perso le elezioni del 6 novembre, dopo una campagna elettorale sostanzialmente dedicata a rincorrere il suo rivale su vari temi: ha dichiarato il suo sostegno al presidente Trump sulla questione del muro, si è posizionato come pro-life sui temi etici, ha promesso di ridurre la regolamentazione sul costo del lavoro e ha avvertito che un provvedimento come il “Medicare for All” – fortemente sostenuto dai sandersiani – avrebbe dovuto “passare sul suo corpo” per essere approvato. Di fronte alla scelta tra l’originale conservatore e la sua rincorsa da sinistra, gli elettori hanno optato senza esitazione per la prima possibilità, eleggendo l’aggressivo trumpista  Mike Braun.

Un esempio, questo, che non pretende in alcun modo di dimostrare quello che, ad oggi, è ancora indimostrabile, nonostante qualche segnale qua e là: e cioè che solo una “sinistra sinistra”, populista sotto certi aspetti, chiara nel linguaggio e nell’ideologia, combattiva sui valori e le cause di riferimento, possa ricolorare la mappa di blu. E neppure abbiamo l’ardire di sostenere che, come molti pensano, se anziché Hillary Clinton il candidato democratico nel 2016 fosse stato Bernie Sanders, ad oggi Donald Trump non sarebbe presidente degli Stati Uniti d’America. L’unica certezza, tuttavia, è che, dopo queste Midterm, la necessità per il partito democratico di fare autocritica, di scegliere una strada, di optare per una delle due anime che ad oggi appaiono inconciliabili, e di tracciare una visione del futuro non è più procrastinabile. Il 2020 non è lontano, e, di questo passo, l’unica direzione possibile per la sinistra americana è quella che conduce al baratro.

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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