Consultazioni, ultimo atto. Lunedì, se Dio vuole, il capo dello Stato Sergio Mattarella scriverà la parola fine a questi due mesi sostanzialmente inutili e indigesti. Se Dio vuole: è proprio il caso di dirlo, visto che il presidente della Repubblica occupa un posto d’onore nelle preghiere di monsignor Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato vaticana, che non ha fatto mistero di affidare al Signore i suoi auspici affinché Mattarella trovi “presto una soluzione”. “Avevamo già detto che assicuravamo preghiere al presidente, mi pare che le dobbiamo aumentare ancora di più”, ha detto ai cronisti.
A preoccupare gli italiani, a ogni modo, è il che cosa esattamente il capo dello Stato scriverà dopo aver chiuso il capitolo consultazioni. Ma andiamo per ordine.
Quali fondamentali eventi hanno convinto Sergio Mattarella a indire un terzo e ultimo, stavolta lampo, giro di colloqui nello studio alla Vetrata?

Ieri, al Nazareno, si è riunita la direzione Pd. Il reggente Maurizio Martina, che sembrava poter aprire a un dialogo costruttivo con il Movimento Cinque Stelle, ha letto una relazione, approvata all’unanimità, che chiude ogni spiraglio di trattativa – semmai qualcuno lo avesse intravisto – con il M5S. A Martina, comunque, è stato dato mandato pieno per guidare il partito fino alla prossima Assemblea Nazionale. La linea di Renzi ha prevalso, o per meglio dire: l’ex segretario del Partito Democratico proprio non riesce a rimanere nell’ombra, e nemmeno in quel religioso silenzio che – aveva assicurato dopo la sonora sconfitta – sarebbe durato per almeno due anni. La discussione sui programmi con i 5S certamente non lo avrebbe visto protagonista, allontanando la prospettiva delle elezioni. A Che tempo che fa, intervistato da Fazio solo pochi giorni prima della riunione, l’ex premier ha così parlato chiaro: “No a un’intesa Pd-5stelle”. Un messaggio in diretta tv che il resto del partito proprio non ha potuto ignorare. E nemmeno Sergio Mattarella: andato in fumo anche il tentativo di un asse tra pentastellati e dem, il presidente della Repubblica non ha aspettato la fine del Nazareno e ha quindi convocato per il 7 maggio le ultime consultazioni possibili.

Avete voi, partiti e gruppi parlamentari altre prospettive di maggioranza di governo? A domanda retorica (al netto di clamorosi colpi di scena) seguirà risposta altrettanto retorica e uno scenario che, poco o nulla a questo punto, avrà a probabilmente che vedere con i risultati elettorali del 4 marzo.
Del resto le posizioni, stando alle ultime dichiarazioni pubbliche dei giocatori in campo, non potrebbero essere più distanti.
Luigi Di Maio invoca le urne e chiama in causa i due ex premier, protagonisti delle ultime settimane, quelli che dopo il voto sembravano destinati a farsi da parte o a ricoprire un ruolo del tutto marginale, e che invece hanno inciso e, non di poco, sullo stallo attuale. “Berlusconi e Renzi sono d’accordo. Ora sarà Salvini a decidere se aiutarli o meno a fare un governo contro di noi – dice il leader dei 5 Stelle – Stanno già cercando il pretesto, le riforme o una nuova legge elettorale. Ma una nuova legge non si può fare, ci infileremmo in un inferno. Bisogna tornare al voto, il 24 giugno. Si può votare coi ballottaggi”. Di Maio dice no anche a “un nuovo Nazareno, magari con Giorgetti premier (Lega). E sarebbe ancora peggio un governo di scopo, di tregua o con qualsiasi altra formula: se con 120 parlamentari abbiamo fatto perdere la metà dei voti al partito di governo, con 338 eletti non gli faremmo passare neanche un provvedimento“. Ricorda infine che “questo tipo di esecutivi hanno solo tagliato diritti sociali, in nome di un’austerity che non è più un principio neanche dell’Europa, ma qualcosa che è nella mentalità dei partiti”.
Il leader della Lega Matteo Salvini, a più riprese, si è detto invece pronto ad assumere un pre-incarico di governo qualora Mattarella volesse procedere in tal senso e ad andare in Parlamento per chiedere sostegno ai parlamentari di altre forze poliche, sulla base di un programma, dai migranti alla Flat Tax, dal sostegno al reddito all’abolizione della Fornero. A chiedere un incarico da affidare al centrodestra è la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni.

Tramite il vicepresidente della Camera Ettore Rosato, il Partito Democratico fa sapere che un governo di tregua avrebbe il suo sostegno e dice di aver “dato disponibilità al dialogo con tutte le forze politiche, ma con dei paletti: no a Di Maio o Salvini premier”, aggiungendo: “Certamente Gentiloni ha tutte le carte in regola per essere un rappresentante del Pd come possibile premier. Lavoro che sta facendo bene”.
Che cosa aspettarsi dunque? Lo spettro del governo tecnico, minaccioso, incombe su un’Italia proiettata verso un futuro grigio. O almeno così parrebbe: le ultime previsioni Istat si spingono fino ai prossimi 50 anni e parlano di un Paese incredibilmente più vecchio e di un Sud destinato a spopolarsi sempre più. Mentre oggi i pochi giovani che restano, e che pure si sono illusi di poter cambiare le loro sorti prendendo la matita in mano alle scorse urne, arrancano verso un altro stage, verso un altro contratto a progetto o collaborazione, fra un turno in un call center e la tentazione di fuggire via. Difficile trattenere lo sdegno, quando a Porta a Porta, il solito Bruno Vespa rispolvera l’espressione “governo di esperti” per descrivere ciò che, da qui a un weekend potrebbe verificarsi. Ancora una volta.
Secondo indiscrezioni, il capo dello Stato starebbe pensando a un “governo di tregua” o “di emergenza”. Prioritario mettere in sicurezza i conti del Paese, evitare l’aumento dell’Iva, approvare la legge di bilancio 2019. Al Parlamento toccherebbe invece mettere mano a una nuova legge elettorale.
Insomma, un esecutivo che arrivi almeno fino a fine anno per fronteggiare le questioni più urgenti, e per far fronte anche a importanti appuntamenti, dal G7 in Canada al Consiglio europeo previsto per fine giugno, evitando contestualmente che si vada di nuovo al voto senza veri vincitori. Il Quirinale proverà, anzitutto, a sondare la disponibilità dei partiti a sostenerlo. Indiscrezioni circolano anche sui nomi a cui affidare un eventuale “governo del presidente”. Tra questi, i più papabili sono quelli di Alessandro Pajno, del neopresidente della Corte Costituzionale Giuseppe Lattanzi e dell’economista Lucrezia Reichlin.