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April 6, 2018
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Negli USA schiavi dei dati, quelle donne spauracchio più ricche degli uomini

Mentre si litiga sul Censimento 2020, non bisogna dimenticare ciò che James Chung aveva dimostrato nel 2010: in America le donne guadagnano di più

James HansenbyJames Hansen
Negli USA schiavi dei dati, quelle donne spauracchio più ricche degli uomini
Time: 2 mins read

Il filosofo sociale tedesco Theodor Adorno, esule negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra mondiale, chiamava il Paese scherzosamente gli “Statistici Uniti” per via dell’ossessiva raccolta, analisi e utilizzo dei dati numerici che lì si praticava – e si pratica tuttora.

Il rito statistico americano si rinnova ciclicamente con un calendario decennale che ricorda quello sacrificale dei Maya per la serietà con cui viene preso. Mancano due anni al primo aprile del 2020, la data in cui lo US Census Bureau “scatterà” la prossima immagine statistica del Paese, ed è già guerra campale su come verranno formulate le domande sull’identità sessuale dei rispondenti. Ad ora, i “generi possibili” proposti sono una decina e si pensa che potrebbe essere il caso di lasciare perdere anziché trascurare qualche agguerrita minoranza – senonché sapere quanti uomini e donne ci sono nel Paese è uno degli scopi fondamentali di tutto l’esercizio…

Il ricercatore James Chung

Già i dati dell’ultimo censimento del 2010 hanno creato infelicità quando un ricercatore poco conosciuto, James Chung, di una società di studi di mercato, li ha utilizzati per dimostrare in maniera terribilmente semplice e chiara che, in larghe parti degli Stati Uniti, gli stipendi di un importante segmento demografico femminile avevano in media ampiamente superato quelli dei coetanei maschili. Secondo l’analisi, in 147 su 150 delle prime città Usa lo stipendio medio a tempo pieno delle donne nubili minori dei trent’anni già superava dell’8% quello dei maschi dello stesso gruppo d’età. In due delle città, Memphis e Atlanta, guadagnavano circa il 20% in più dei maschi. Il vantaggio femminile era del +17% a New York e del +12% a Los Angeles.

Chung attribuiva il risultato soprattutto alla superiore scolarizzazione. Negli Stati Uniti si è da tempo rovesciata la secolare tendenza che vedeva i diplomati universitari in forte maggioranza maschile. Ormai le laureate superano i laureati del 50%.

Il gender gap e le azioni “affermative” per chiuderlo sono una sorta di necessità organizzativa della politica interna americana e il suggerimento che il gap potesse (forse) cominciare a chiudersi senza ulteriori interventi statali non è stato ricevuto con gioia, né dalle donne – specialmente da quelle che non rientravano nella demografica benedetta – né tantomeno dagli uomini, per niente contenti di una dimostrazione del loro nuovo status di “perdenti”.

Per fortuna, Chung non era un ricercatore accademico, anche se i dati di partenza erano semplici, da fonte buona e rappresentativi di un campione enorme. Dopo un po’ di imbarazzata cagnara un silenzio assordante è sceso sull’argomento. È però quasi impossibile che il tema non dovrà essere rivisitato – e confermato o rovesciato – alla luce dei nuovi dati in arrivo con il “Pesce d’aprile” censuario del 2020.

Il problema con i dati, specialmente quelli affidabili, è che a volte ci dicono delle cose che non vogliamo sentire, che volano in faccia alle “verità ricevute” che – certe o meno – si trovano alla base del regolare funzionamento delle nostre società. Il tema fondamentale dopotutto è quale dei due generi, maschile o femminile, possa emergere come sesso dominante per i prossimi millenni. La domanda non era mai sorta in tutta la storia umana. Non è una quisquilia.

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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