“Se fossi in Renzi mi allontanerei dalla politica per qualche anno, andrei all’estero, farei altre esperienze; per poi tornare, ripartendo da zero”. Nelle ore post-voto che ha sancito il tracollo elettorale del Partito Democratico in Italia, questa frase l’hanno ripresa in molti. La pronunciò il dirigente di Eataly Oscar Farinetti, in un’intervista al Corriere della Sera, un mese dopo un’altra pesante sconfitta, questa volta tutta di Matteo Renzi e dei suoi fedelissimi: quella del Referendum 2016 sulla riforma costituzionale, a cui il 60% degli italiani disse no.
Visto oggi, con il PD ai minimi storici e il suo leader nel pieno di una crisi politica esistenziale tra le più profonde della sua giovane carriera, quel consiglio di Farinetti, che di Renzi è amico, appare illuminante. Anche se ancora molto lontano dalla testa del Segretario. Che nonostante le dimissioni dalla guida del partito, annunciate in una conferenza stampa lunedì 5 marzo, ma “a data da destinarsi”, previste solo dopo l’insediamento del nuovo Parlamento, non ha ancora ammesso i suoi errori.
Quelli strategici, profondi, che lo hanno portato a trasformarsi nel giro di appena 48 mesi dal Renzi autore del discorso illuminato sul destino dell’Europa del 2 luglio 2014 a Strasburgo, alla tragica conferenza stampa di addio a Roma del 5 marzo 2018, che di addio proprio non è stata. E che lo hanno fatto diventare, da rottamatore riformista europeo che era, “senatore semplice di Firenze, militante tra i militanti”. Ma senza forse nemmeno voler guidare la delegazione del suo partito dal presidente Sergio Mattarella, quando inizieranno i lavori alla ricerca di una maggioranza in Parlamento. E dicendo anzi, secondo quanto riferito da Massimo Giannini su Radio Capital (ma smentito dal portavoce di Renzi), piuttosto di voler “andare a sciare”.
C’è un’immagine molto famosa sul web, che raffigura un ciclista che guida una bicicletta, prende un legnetto, lo appone nei raggi della sua bici, cade, si fa male. Si lamenta. Venne ripresa sui social media per riassumere il suicidio politico dei Democratici quando impallinarono Romano Prodi alla corsa al Quirinale nel 2013. È perfetta anche per riassumere gli ultimi due anni di Matteo Renzi. Che ancora oggi sembra non aver capito che Farinetti aveva ragione. Perché nella conferenza stampa del 5 marzo in cui ha annunciato le sue dimissioni a data da destinarsi da Segretario del PD, Renzi ha solo preso atto della sconfitta, evidente, del partito che ancora guida. Ha concesso magari che “siamo stati troppo tecnici”. Ha trovato le ragioni del tracollo nel “fatto che non abbiamo sfruttato le due finestre del 2017 per andare al voto”. Ma non si è ancora addossato nessuna responsabilità. Anzi ha sfidato, con un po’ dello smalto del primo Renzi, Lega e 5 Stelle sul governo che verrà, evidenziando che il PD sarà all’opposizione di qualsiasi esecutivo: “Se noi siamo visti come quelli sporchi, mafiosi, insanguinati, impresentabili, beh, che governino loro adesso. E non ci chiedano di farlo assieme”, ha detto in un passaggio tra i più significativi di quella conferenza stampa.
Il punto, però, sta proprio qui. Che non tutto il PD è d’accordo con lui. C’è chi quel governo coi 5 Stelle lo farebbe infatti subito. E c’è anche chi nei 5 Stelle preferirebbe accordarsi con il PD senza Renzi e con Grasso, piuttosto che trovarsi al fianco di Salvini. Ed è per questo che Renzi sta cercando di rimanere al timone il più possibile: per marcare il territorio del Parlamento che verrà, prima di tornare a fare il senatore semplice (con gli sci?), di quel Senato che voleva abolire.
Le ragioni di voler stare all’opposizione di un governo 5 Stelle e Lega per ripartire non sono strategicamente insensate, per una volta. Anzi. Il Paese ha bisogno del ricambio e i numeri parlano chiaro: la maggioranza degli italiani non vuole il centrosinistra al governo. E dal punto di vista politico, si sa, governare porta a perdere consensi, stare all’opposizione aiuta a collezionarne. Ma il problema è nel metodo, che Renzi sta ancora sbagliando. Perché è ancora troppo affezionato a un ruolo di spicco che non vuole smettere di ritagliarsi, ed è ancora troppo lontano da quella pausa che l’amico Oscar Farinetti gli suggerì. E che potrebbe salvarlo come leader della sinistra italiana in un futuro.

Il crollo graduale del giovane politico riformista di sinistra moderata a cui molti Millennials hanno creduto salvo poi rimanerne delusi, arriva ben prima di questo momento. Prima del referendum costituzionale del 4 dicembre, prima delle elezioni del 4 marzo, prima dell’era da senatore semplice che forse va a sciare o forse no, al posto di vedere Mattarella. Arriva dall’opera di pulizia del PD di Roma, che ha portato alle dimissioni forzate e alla cacciata di Ignazio Marino nel 2015. Tornando alla famosa immagine del web sui suicidi politici del PD, all’epoca quel legnetto non era ancora stato apposto tra i raggi della bici, ma la caduta ha iniziato a concretizzarsi. In quella prova di forza interna, quando Renzi credeva ancora di avere il 40% dei consensi esterni, che ha portato alla promozione come figura di spicco dei Democratici di Matteo Orfini, che il 4 marzo è arrivato ultimo nel suo collegio, nel suo quartiere a Roma, ed è entrato in Parlamento solo grazie al sistema proporzionale.
Da quel momento in poi, da quella bocciatura a Marino, nemmeno a metà mandato come sindaco di Roma, il PD di Renzi ha invertito la tendenza che lo vedeva vincente. Lo stesso Renzi che aveva fatto il miracolo politico, prendendosi gioco di un intero Parlamento e portando Sergio Mattarella all’elezione come Presidente della Repubblica. E che da quel momento, ha sbagliato tutto lo sbagliabile. Dal totale fallimento della campagna di comunicazione pre-Referendum, in cui Renzi si è speso tanto, troppo e personalmente, nonostante il disegno di legge avesse un altro nome. Alla promessa di dimettersi e di lasciare la politica, per poi non farlo mai. Dalla ricandidatura a segretario del PD, forte del consenso interno di chi attorno a lui gli ha sempre detto solo dei sì. Alla difesa a oltranza di Maria Elena Boschi, con inclusa la scelta di indire una commissione-banche a due mesi dal voto in Parlamento, che del problema delle banche non ha di fatto mai parlato, diventando piuttosto teatrino per macchiare ancor di più politicamente la figura della Boschi stessa e dei Democratici. Dalle forzature nelle scelte dei candidati nei collegi uninominali e il mancato annuncio di Paolo Gentiloni (il cui indice di gradimento nel Paese è ancora alto) come papabile a presidente del Consiglio. Alla conferenza stampa conclusiva del 5 marzo che ha aperto la fase del senatore semplice. Forse con gli sci, forse no.

La notte del 4 dicembre 2016, Matteo Renzi aveva avuto un’occasione ghiotta. Dopo la conferenza stampa in cui aveva annunciato le dimissioni da presidente del Consiglio, un discorso in stile british, ricco di contenuti, che aveva ricordato quello di David Cameron dopo la sconfitta sulla Brexit per classe e quello di un vero leader europeo per intelligenza, Renzi avrebbe potuto anticipare il consiglio di Farinetti. Avrebbe potuto evitare di apporre il legnetto tra i raggi della sua bici. Allontanandosi dalla politica e dal PD, azzardando magari un endorsement forte a un parlamentare di suo gradimento in uno dei collegi per le elezioni 2018. Viaggiando e stringendo mani. Assumendo ruoli istituzionali di una fondazione e intervenendo a dibattiti e conferenze. Attendendo e avendo pazienza. Se avesse fatto così, forse, oggi sarebbe di nuovo il volto nuovo della sinistra riformista europea pronta a lavorare dalle macerie per tornare a vincere dopo una sconfitta elettorale. Così, invece, oggi, rimangono solo le macerie. E senza nemmeno una leadership.