Ormai in America per sapere quale sia la percentuale dei votanti in un’elezione bisogna impegnarsi. Ai telegiornali e ai quotidiani non interessa: fanno analisi di come hanno votato gli uomini non laureati e con uno stipendio di 80mila dollari all’anno o le donne sotto i trent’anni con almeno due figli ma si guardano bene dal dire quanti siano quegli uomini e quelle donne. Non si tratta di dati segreti o difficili da calcolare: per le precedenti elezioni infatti li si trova sui siti governativi, a livello federale e statale; però non vengono comunicati al grande pubblico nei brevi momenti in cui questo presta attenzione alla politica. La ragione è semplice: il liberismo, sia di destra che di sinistra, considera la democrazia una prerogativa dei vincenti: chi vuole ottenere qualcosa e vuole farsi sentire ne ha la possibilità, gli altri peggio per loro, non contano nulla ed è giusto che non contino nulla. Un po’ come quando alle urne erano chiamati solo i cittadini che sapevano scrivere e avevano un certo grado di educazione.
Martedì in Virginia ha votato il 47% degli aventi diritto, esattamente come domenica in Sicilia. La differenza è che in Sicilia il numero dei votanti è stato leggermente più basso che nel 2012 e molto più basso che nel 2006 mentre in Virginia la percentuale è stata di 4 e 7 punti più alta che nelle precedenti votazioni; però la tendenza di medio e lungo periodo è uguale nei due paesi: ai seggi elettorali ci vanno sempre meno cittadini. Sempre martedì, per esempio, alle votazioni per scegliere il sindaco di Boston ha partecipato un quarto degli elettori registrati. A New York solo il 22%.
È una questione che i partiti e movimenti populisti (aggettivo per me positivo) e dunque interessati al bene comune non possono più permettersi di ignorare. L’astensionismo siciliano ha dato la vittoria a Berlusconi e ai suoi impresentabili; la maggiore partecipazione in Virginia ha non solo consentito l’elezione di un governatore democratico ma addirittura rischia di far perdere ai repubblicani la maggioranza nel parlamento dello stato, da loro controllato con ampi margini dal 1998. Mi pare evidente che in Italia occorra aggregare al più presto tutte le forze autenticamente democratiche e creare un comitato di liberazione nazionale della democrazia, rifiutando l’idea promossa dai giornalisti e dagli intellettuali liberisti che la sua fine (spesso chiamata eufemisticamente post-democrazia) sia un destino inevitabile e forse opportuno. Non è affatto vero che la disaffezione della gente per la politica non possa che crescere; non è detto che ci si debba rassegnare a un futuro di qualunquismo. Ma per fermare la deriva bisogna impegnarsi, agire. I cardini della democrazia, oggi più che mai, sono il proporzionale puro, la messa fuori legge delle lobby e la proibizione dei finanziamenti privati superiori a poche centinaia di euro. Ci sta il M5S a lottare per la democrazia e non solo per il potere?
Quanto alla sinistra sociale e socialista, la battaglia per la democrazia è per essa imprescindibile: da sempre e direi per definizione il suo compito primario, o forse il suo unico compito, è infatti far prendere coscienza al popolo; e nella società attuale la coscienza si esercita e manifesta anche nel rito delle elezioni, salutare antidoto alla post-democrazia pilotata dei sondaggi, delle previsioni statistiche, delle primarie, dei talk show. Nei seggi non si farà alcuna rivoluzione e forse neppure si faranno le profonde riforme di cui il mondo ha assoluto bisogno; ma solo lì si possono creare le condizioni che al momento opportuno renderanno possibili le riforme e, se necessaria, la rivoluzione.