La ragione per cui un personaggio come Emma Bonino e i radicali in genere ricevono, e hanno sempre ricevuto, un’attenzione mediatica del tutto sproporzionata rispetto al loro peso elettorale (vedi in questi giorni lo spazio dedicato da giornali e telegiornali al loro congresso) è che sono del tutto funzionali al liberismo. La loro origine del resto è quella: il Partito radicale nacque, nel 1955, da una scissione del Partito liberale. Da allora non sono mai stati importanti per i voti che hanno portato, pochi o pochissimi, bensì per il loro contributo ideologico alla deregulation morale e culturale che è indispensabile al neocapitalismo per imporre la sua egemonia globale.
Non è un caso che fu proprio nel 1969, in pieno autunno caldo, che i radicali cominciarono a promuovere la legalizzazione del divorzio, scontrandosi non solo con la DC e i suoi valori cattolici ma anche e soprattutto con il PCI e i suoi valori marxisti, che chiaramente assegnavano ai diritti collettivi una netta priorità su quelli individuali e individualistici. Cinque anni dopo, la loro impostazione della campagna per il referendum sul divorzio contribuì enormemente alla svolta del paese verso il privato, ossia alla fine della stagione dell’impegno e delle grandi lotte sindacali che avevano creato un’Italia altamente politicizzata e egualitaria (e sostanzialmente nazionale popolare) e all’inizio della stagione del riflusso, che dura tuttora e che ha generato l’Italia del qualunquismo, del precariato, della disparità economica e delle privatizzazioni. Emblematica la foto del vecchio Pannella con Silvio Berlusconi che firma per i sei referendum radicali sulla giustizia alla fine di agosto del 2013, ossia poche settimane dopo la sua condanna per frode fiscale.
I diritti civili sono importanti e fanno parte integrante del programma di ogni autentica sinistra. Fra i primi atti del governo sovietico ci furono l’introduzione, appunto, del divorzio (già il primo dicembre 1917) e dell’aborto e la depenalizzazione dell’omosessualità e del suicidio assistito. Ma l’obiettivo primario dei bolscevichi e della lotta politica e rivoluzionaria non erano quei diritti: era l’istituzione di un sistema socialista in grado di realizzare l’eguaglianza economica difendendo i beni comuni dall’avidità di pochi egoisti e dando al popolo e allo Stato, non ai ricchi e alle loro corporation, la gestione dei mezzi di produzione, assistenza, educazione e informazione. Al di là delle sue attuazioni concrete la differenza ideologica è fondamentale: ai comunisti e socialisti interessano le comunità e la società, ai liberisti le libertà individuali.
È passato esattamente un secolo dai dieci giorni che sconvolsero il mondo (per citare il titolo del famoso libro di John Reed, testimone americano della rivoluzione d’ottobre) e le grandi speranze sorte allora sono state completamente cancellate dalla metodica opera di disinformazione e corruzione finanziata da banche e multinazionali. Con l’efficace aiuto dei radicali e dei tanti partiti e movimenti che hanno sistematicamente indebolito la coscienza di classe e il senso di appartenenza a un popolo e li hanno sostituiti con l’adesione a nicchie di interessi privati, a tifoserie trasversali incapaci di agire o anche solo pensarsi come collettività. Di conseguenza il mondo sta precipitando verso la catastrofe sociale e ambientale, com’è ovvio che accada quando un potere economico e tecnologico senza precedenti può agire senza alcun vincolo etico e politico ma solo sulla base di incontrollati desideri individuali e del dogma del successo personale. Nessun Dio e nessun uomo della provvidenza ci salverà ma siamo ancora in tempo per salvarci da soli: a patto che almeno una parte di noi (un’avanguardia, per usare un termine poco di moda) sia in grado di riproporre alla gente il progetto, che cento anni fa animò la rivoluzione russa e che è stato esautorato dalla controrivoluzione radicale, di una società, anzi, tante società diverse e autonome, in cui i singoli trovino sicurezza e felicità nella solidale e sostenibile condivisione dei beni materiali e immateriali piuttosto che nell’astiosa e irresponsabile competizione per essi.