Continua la battaglia legale tra l’amministrazione americana e i tribunali federali sul cosiddetto Travel Ban, il controverso decreto che vieta la concessione dei visti di ingresso negli Stati Uniti per le persone provenienti da sei paesi a maggioranza musulmana (Iran, Libia, Siria, Somalia, Sudan, Yemen), bloccando temporaneamente anche l’entrata dei rifugiati.
Con un breve ordine emesso martedì, la Corte Suprema ha infatti dato per ora ragione a Trump, sospendendo un pronunciamento della Corte d’appello del nono circuito federale, nella parte in cui consentiva a 24 mila richiedenti asilo di mettere piede negli USA. Nello stesso tempo, il governo sta valutando di abbassare la soglia di rifugiati ammessi entro il prossimo anno a meno di 50 mila.
Si tratta dell’ennesima evoluzione in una vicenda che da mesi continua a dominare le prime pagine dei quotidiani americani.
Da quando è entrato per la prima volta in vigore, lo scorso 27 gennaio, l’ordine esecutivo voluto da Trump (che nella prima versione includeva sette stati tra cui anche l’Iraq) è stato oggetto di infuocate contestazioni da parte di avversari politici, ampie porzioni di società civile e vari tribunali federali, che ne hanno più volte bloccato la messa in atto sollevando obiezioni sulla sua costituzionalità.
Ne è risultata una situazione poco chiara. Più i media ne parlano, meno si riesce a capire quale sia la questione giuridica di fondo, che in fin dei conti, nelle sue linee generali, è abbastanza semplice. Per fortuna, il prossimo 10 ottobre scopriremo finalmente chi ha vinto la guerra: la Corte Suprema si esprimerà infatti in maniera definitiva sulla costituzionalità del tanto odiato executive order. Tralasciando per un attimo il chiasso e le polemiche politiche che circondano il Travel Ban, l’atteso verdetto ruoterà intorno a due semplici tesi.
Per provare l’incostituzionalità del provvedimento, le Corti Federali che vi si oppongono fanno leva su quanto il candidato Donald Trump ha affermato durante la campagna elettorale, quando ha espressamente promesso di “bandire” a tempo indeterminato l’ingresso di “tutti i musulmani” negli USA. Una volta insediatosi, il divieto ha riguardato però solo alcuni paesi (tra l’altro gli stessi già classificati come “a rischio” in un precedente provvedimento di Barack Obama), cioè una piccola parte degli stati a maggioranza musulmana nel mondo. Ciò nonostante, le affermazioni del candidato Trump renderebbero chiaro un’intento di discriminazione religiosa espressamente vietato dalla Costituzione.
Al contrario, l’amministrazione contesta tale ipotesi: non si può imputare l’intento discriminatorio basandosi su affermazioni passate, tanto più se l’ordine esecutivo non le rispecchia in pieno. In più, sulla base all’Immigration and Nationality Act del 1952 (anche detto McCarran-Walter Act), il Congresso attribuisce espressamente al presidente il potere discrezionale di imporre delle quote agli ingressi. Al riguardo, il documento sembra essere chiarissimo: “Ogni volta che il presidente ritenga che l’entrata di qualunque straniero o classe di stranieri negli Stati Uniti sarebbe dannosa per gli interessi degli Stati Uniti, può proclamare, per il periodo che ritiene necessario, di sospendere l’entrata di tutti gli stranieri o di qualunque categoria di stranieri, sia immigrati sia non immigrati, o di imporre sull’entrata di stranieri qualsiasi restrizione ritenga appropriata”.
Insomma letta in questi termini la lettera della legge darebbe ragione in pieno a Trump, ma tutto dipenderà dalla volontà o meno della Corte di ritenere rilevanti le opinioni del Donald candidato.
Ironie della Storia, più di cinquant’anni fa l’approvazione dell’Immigration and Nationality Act diede vita a infuocate polemiche incredibilmente simili a quelle alle quali assistiamo da qualche mese. Eravamo nel pieno della guerra fredda, e uno dei timori più diffusi nell’America dell’epoca era il possibile ingresso di spie, informatori o sovversivi sovietici in grado di infiltrarsi nelle istituzioni o di creare problemi di ordine pubblico. Fu così che il senatore Pat McCarran e il deputato Francis Walter (entrambi democratici) proposero una serie di norme con l’intento di dare una stretta alle quote di immigrati ammessi nel paese, eliminando nello stesso tempo anacronistiche norme discriminatorie nei confronti degli asiatici contenute nella precedente legge del 1924. Il sistema delle quote veniva regolato in maniera stringente, permettendo inoltre la deportazione anche sulla base di presunte opinioni politiche ritenute “pericolose”.
L’obiettivo era limitare gli ingressi dei rifugiati provenienti dagli stati comunisti dell’est Europa, che nella maggior parte dei casi tentavano di fuggire dall’opprimente giogo dell’allora Unione Sovietica. Uno dei più accaniti oppositori del McCarran-Walter Act fu il presidente democratico Harry Tiruman, che lo definì “antiamericano” imponendovi il veto, poi superato dal Senato. È incredibile notare come i termini del dibattito fossero incredibilmente simili a quelli attuali. Da un lato McCarran affermava: “oggi, come mai prima, abbiamo milioni di sconosciuti che si affollano ai nostri cancelli […] la soluzione dei problemi in Europa e in Asia non sarà quella di trapiantare questi problemi in massa negli Stati Uniti”, giustificando così la legge; dall’altro Truman evocava la necessità di “tendere una mano d’aiuto” per “soccorrere coloro abbastanza coraggiosi da scappare alla barbarie”.
Insomma in una nazione come gli USA il dibattito sull’immigrazione, sui suoi limiti e sulla necessità di bilanciare accoglienza e futura integrazione, oggi come allora era al centro della discussione politica. Con una sola differenza: all’epoca, il paese fu capace di superare le divisioni in nome di un superiore interesse collettivo; oggi, invece, una cosa è certa: qualunque sarà la decisione della Corte Suprema, mezza America non la accetterà.