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July 31, 2017
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Space Corps USA e forze armate spaziali: vezzo fantascientifico o realtà?

Potrebbe una “forza di pace” bombardare la Terra dallo spazio? La risposta sarà probabilmente del tipo: "Se vincono, sì, altrimenti no"

James HansenbyJames Hansen
Space Corps USA e forze armate spaziali: vezzo fantascientifico o realtà?
Time: 2 mins read

Avendo saturato il mercato terrestre per le guerre, gli Stati Uniti ora meditano di creare una nuova forza armata dedicata ai combattimenti spaziali – per il momento etichettata con il nome generico di “Space Corps”. L’idea, un classico della fantascienza, non è nuova nemmeno nel mondo reale. Le VKS, le “Forze spaziali russe”, esistono nominalmente dal 1982 e gli effettivi arriverebbero a 150mila, un calcolo che comprende però tutte le difese missilistiche del Paese.

Le competenze militari nello spazio apparterrebbero negli Usa all’Air Force, che – forse indispettita dall’esistenza autonoma e ad alta visibilità della Nasa – le ha sempre scansate, saccheggiando i relativi budget per acquistare quello che voleva davvero: soprattutto nuovi caccia sempre più veloci e più “invisibili”. Già nel ’98 l’influente Congressman Bob Smith ebbe a dire: “Se l’Air Force non può o non vuole abbracciare la proiezione del potere militare nello spazio, noi del Congresso dovremo trascinarli lassù, calciando e urlando se necessario, o forse stabilire un corpo militare completamente nuovo…”. Con la fine della Guerra Fredda non se n’è più fatto niente, ma il tema torna a galla. Il Senatore John McCain ha recentemente detto: “La minaccia spaziale [russa e cinese] si è sviluppata con una velocità allarmante. Eppure durante lo stesso periodo, il Dipartimento della Difesa e l’Air Force hanno ridotto la ricerca e sviluppo dedicata ai sistemi spaziali dell’80 percento”. La minaccia russa nello spazio è nei fatti insignificante, ma quella di Pechino no. La ricerca spaziale cinese ha un carattere marcatamente militare e la Cina non si è nemmeno data la pena di inventare una propria “Nasa” per poter fare finta che non sia così. Malgrado la comune percezione contraria, la militarizzazione dello spazio non è proibita per trattato. Piuttosto, sarebbe vietato l’utilizzo oltre l’atmosfera di certe tipologie di armi offensive: nucleari, chimiche e biologiche. L’Articolo IV del Trattato sugli usi pacifici dello spazio del 1967 – partendo dalla modesta considerazione che l’universo extraterrestre sia “un bene comune dell’umanità” – suggerisce sì che debba essere utilizzato a “scopi esclusivamente pacifici”, ma manca di definire cosa si intenda per “pacifico”. Secondo alcuni giuristi la clausola non vieterebbe, per esempio, il semplice “transito” nello spazio di armi nucleari. Basta che esplodano a terra…

Potrebbe allora una “forza di pace” – una denominazione ormai comune – bombardare la Terra dallo spazio con queste armi? La risposta, nei fatti, è probabilmente del tipo ‘se vincono, sì, altrimenti no’. Per fortuna, ci sono gli Usa che si offrono per proteggerci… C’è però un ostacolo, di quelli che dimostrano come tutto il mondo è paese. Di chi dovrebbe essere il nuovo corpo? L’Air Force, pur avendo fin qui dimostrato soprattutto noncuranza, insiste che siccome i mezzi spaziali “volano”, allora è roba loro. La US Navy invece sottolinea come le astronavi siano per l’appunto “navi” e fa pesare l’esperienza nell’ospitare un altro corpo militare autonomo – i Marines dipendono formalmente dalla Marina.

Le Forze Aeree americane sono state rese indipendenti dall’Esercito nel 1947, e gli echi di quella tremenda, apocalittica battaglia burocratica non si sono ancora spenti. L’avvento della “Fanteria dello Spazio” Usa con la pistola laser alla cinta e l’ossigeno nello zaino è ancora al di là da venire.

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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