Le cronache del Consiglio Europeo a 28 di giovedì 9 marzo, e di quello informale a 27 (senza il Regno Unito) del giorno successivo per preparare la Dichiarazione Solenne sull’Unione del 25 marzo a Roma, trasmettono la sensazione che si sia prossimi al risveglio dal lungo sonno, delle istituzioni che giusto 60 anni fa avviarono il loro percorso.
Due gli avvenimenti che rendono lecito il sospetto. La scelta di confermare il polacco Donald Tusk a presidente del Consiglio Europeo, nonostante il voto contrario della Polonia; il ventilato inizio di cooperazioni rafforzate tra diversi stati membri nei campi della politica e della difesa, pur in assenza di paesi che, soprattutto tra i paesi dell’Europa centrale e orientale, non se la sentissero. Anche sulla seconda questione, l’opposizione più decisa è venuta da Beata Szydlo, capo del governo polacco.
Si ammetterà che solo ragioni di un certo peso abbiano potuto convincere i capi di stato e di governo che siedono in Consiglio, ad esprimersi unanimemente contro la collega su questione così delicata come l’elezione del presidente. A memoria, mai, nel galateo dell’Unione, si era data tanto palese violazione del “diritto” degli stati membri a candidare, per i ruoli istituzionali di Bruxelles, figure gradite al governo del paese di provenienza del candidato. Liberi i partner di esprimere o non il gradimento sulle proposte in arrivo da questa o quella capitale, ma senza mai lanciare candidati nazionali alternativi. Stavolta si è andati decisamente oltre, spingendo la corazzata del Consiglio dentro il dibattito politico interno alla Polonia, con la nazionalista Szdylo umiliata nella sua forsennata rincorsa a vietare la riconferma dell’europeista Tusk e imporre la posizione di Varsavia contro tutti.
Queste appaiono le ragioni.
Nella cultura politica edificatasi in 66 anni di storia comune (la prima Comunità, la Ceca, è del 1951), è evidentemente giunto il momento d’inserire, tra gli acquis, la nascita del “politico europeo”, la cui capacità di operare e manovrare è autonoma dallo stato di provenienza, e può trovare più appoggio nell’arena continentale che in quella nazionale. Se si passa l’esempio, qualcosa del genere accadde ai fuoriusciti politici europei nel novecento: marchiati come traditori in patria dai vari regimi fascisti nazisti e comunisti, trovarono legittimità dentro i regimi democratici che li accolsero e diedero loro spazio e agibilità per rappresentare le loro idee e combattere contro il governo del loro paese.
I personaggi di rilievo che agiscono nel caso di specie appartengono tutti al Ppe, il partito dei democratici cristiani europei e apparentati: così i due polacchi, la cancelliera Angela Merkel, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani. Si può ritenere che. dentro la famiglia democristiana e popolare, si stia andando alla resa dei conti, e che gli antieuropeisti che vi allignano troveranno vita sempre più difficile.
Da ultimo il fatto che ad esprimersi a favore di Tusk siano stati anche i governi del patto di Visegrad (non tutti di adamantina coerenza europeista, si guardi ai trascorsi dell’Ungheria, o della Cekia di Váklav Klaus) e la Gran Bretagna. In diplomazia contano i rapporti tra stati, più di quelli tra persone, quindi è da escludere che si sia trattato di solidarietà verso un “collega” meritevole. C’è piuttosto da propendere per la tesi che, di fronte al montare dei nazional-populismi, molti stati membri siano convinti di dover dare segnali forti, ad uso interno, contro i rischi di derive sciovinistiche e antidemocratiche.
In quanto all’ipotesi di procedere ad ulteriori cooperazioni rafforzate, espressa da paesi come Germania Francia Italia Spagna e dal presidente Juncker, che tanto ha spaventato stati membri non disponibili, occorre innanzitutto chiarire che il meccanismo non solo è previsto dai trattati in vigore, ma è già in funzione per molteplici aspetti della vita unionale. Per tutti valgano il caso dell’euro, al quale aderiscono 19 paesi sui 28 membri, e quello della convenzione di Schengen sulla libera circolazione alla quale aderiscono 26 paesi 22 dei quali UE. Nella riunione convocata dal presidente François Hollande a Versailles ad inizio marzo, i quattro grandi europei, Germania Francia Italia e Polonia, si sono impegnati a riprendere il cammino verso l’Unione politica, e detta volontà dovrebbe essere ribadita a Roma, nelle celebrazioni in Campidoglio del 25 marzo. Tra molti dissensi e distinguo, si sta lavorando al documento che dovrebbe consentire il rilancio delle istituzioni su base del motto dell’Ue che recita “Uniti nella diversità”, lasciando agli stati di optare per il tasso di europeizzazione che vorranno inserire nella propria struttura costituzionale. A questo proposito, in passato si è parlato di cerchi concentrici, geometrie variabili, più velocità, asimmetrie, e anche di un menu Europa dal quale gli stati scelgano à la carte.
Vi è generale consapevolezza che senza uno scossone, l’Europa non possa reggere alle sfide che le cadono addosso dall’esterno (l’ultima da una Washington meno incline di sempre a multilateralismo e libero commercio, tesa al riarmo e all’interventismo, in ambigua posizione verso Mosca), e dall’interno (immigrazioni incontrollate, scarsa crescita, nazional-populismi). La lezione del 2008, quando l’America scaricò sul vecchio continente il peso della sua crisi finanziaria, è ancora viva, nella consapevolezza che una Ue meglio attrezzata e con più potere federato avrebbe potuto ben rintuzzare quell’attacco proditorio inferto dalla potenza alleata alla sua economia e al suo sociale.
Che quella consapevolezza possa tradursi in una storia di rilancio dei progetti europeisti, è tutt’altra cosa, anzi lo scenario che si ha davanti non si presta ad ottimismi. Il quadro politico continentale potrebbe variare in occasione delle prossime elezioni. Comincia l’Olanda mercoledì 15 marzo, poi ad andare al voto saranno Francia e Germania, quindi l’Italia. Se in Germania poco spaventa l’ipotesi dell’avanzata della destra nazional-populista, non è così negli altri paesi.
E non è comunque pensabile che un progetto storico come quello dell’unione fra i popoli europei, possa dipendere dalla natura delle alleanze politiche di governo nei distinti paesi membri. L’unione dovrebbe essere un patrimonio condiviso da tutti, ma è evidente che così non è. Per un paragone, comprensibilmente poco attinente ma che dà comunque un’idea del problema, quando si vota negli Stati Uniti non ci pone il problema dell’Unione ma solo di come essa verrà interpretata dalla maggioranza politica di turno. In Europa era così sino a prima della crisi socio-economica degli anni ’10, poi diventata anche crisi identitaria.
Altro elemento di debolezza rispetto al progetto di rilancio, la scarsa qualità dell’attuale leadership.
Chi mastica un po’ di storia delle istituzioni europee, guardando allo scontro nel Consiglio di Bruxelles di questi giorni, arrivato al punto di non consentire l’emissione delle Conclusioni, ha istintivamente stabilito il parallelismo con quanto accadde al castello Sforzesco di Milano il 28 e 29 giugno 1985, nel vertice dei capi ti stato e di governo della Comunità a Dieci, presenti Spagna e Portogallo firmatari due settimane prima dei trattati di adesione.
Presidente di turno l’Italia, il capo del governo Bettino Craxi e il ministro degli Esteri Giulio Andreotti imposero, norma del trattato alla mano, un inaudito voto di maggioranza, teso a congelare la pestifera Margaret Thatcher nella fiera avversione ai passi dalla Comunità all’Unione che la maggioranza dei leader voleva compiere. A sorpresa il cancelliere Helmut Kohl, appoggiato da François Mitterrand, aveva presentato il progetto di nuovo trattato comunitario, provocando la reazione irata della Thatcher. Craxi aveva deciso di forzare il gioco, incassando l’approvazione, per sette voti contro tre, della Conferenza intergovernativa, Cig, con largo mandato a riformare i trattati di Roma. Da lì l’Atto unico europeo, in vigore dal 1° luglio 1987, che avrebbe condotto al completamento del mercato interno attraverso la libera circolazione di persone, merci, capitali e servizi dal 1° gennaio 1993, con le conquiste di euro e Schengen.
Fu il grande successo dell’Italia pre-Manipulite, e degli europeisti. Fu realizzabile perché al tavolo sedevano uomini del calibro di Craxi e Andreotti, un presidente di Commissione come l’inarrivabile Jacques Delors, un François Mitterrand e un Helmut Kohl sul ponte di comando franco-tedesco. E funzionavano ancora le solidarietà transnazionali tra socialisti, e tra popolari, oggi più formali che sostanziali.
Dove sono i capitani della battaglia per la nuova fase europea che dovrebbe aprirsi a Roma? Juncker del bianchissimo “Libro Bianco” del primo marzo, tanto inconsistente da poter essere classificato nullo? Hollande in uscita? Gentiloni presidente a tempo? Merkel, donna dell’est tedesco mai leader sinora di un’Europa che le è abbastanza estranea?
E tuttavia, è giusto che il cronista registri quanto accaduto a Bruxelles in settimana, e l’opinionista rifletta sulle conseguenze: nella primavera di Roma, forse l’Ue uscirà dal lungo letargo.