Prima ancora del suo insediamento ufficiale, è iniziato l’assalto mediatico sulle sue decisioni azzardate e nazionaliste del presidente eletto degli USA, Donald Trump.
Come quella di costruire un muro di separazione con il Messico per rallentare (eliminare del tutto è praticamente impossibile) il flusso di migranti clandestini dal Messico. Un problema simile a quello dei migranti che da anni ormai sbarcano sempre più numerosi sulle coste italiane. Gente che fugge non da oppressioni politiche o da guerre ma in cerca di un lavoro. Chiamarli migranti è solo un eufemismo che vuole celare dietro una forma di finto buonismo il termine immigrati clandestini. Un fenomeno geopolitico ben diverso da quello con il quale è stato paragonato, ovvero i viaggi di quanti emigravano dall’Italia e da molti altri paesi europei diretti negli USA all’inizio del secolo scorso: in quei casi si trattava di regolari immigrazioni regolamentate e gestite dalle autorità.
Pochi di questi media hanno detto che in realtà le barriere con il Messico non sono un’invenzione di Trump: esistono già da molti anni e fino ad ora nessuno ha osato proferire parola. In molti altri paesi esistono queste barriere o metodi poco ortodossi di limitare i fenomeni migratori e mai nessuno ha gridato allo scandalo.
In Australia, ad esempio, sono stati creati dei “centri di prima accoglienza” in isole sperdute. Luoghi che molti hanno paragonato a veri e propri campi di concentramento (e dove si sono registrati morti e problemi sociali). Eppure nessuno in questi posti ha gridato allo scandalo.
Così come nessuno ha detto niente delle barriere che molti dei paesi che aderiscono all’Unione Europea continuano a costruire nel tentativo di arginare il flusso di migranti: oggi sono molte di più di quando è nata la cosiddetta “Unione”, dove ormai a girare liberamente sono solo le merci. Per non parlare della Gran Bretagna, che pur avendo conservato la propria moneta detiene una parte considerevole delle azioni della Banca Centrale Europea. Per non parlare delle recenti dichiarazioni della nuova premier (ancor prima che le camere decidessero la ratifica della Brexit) di voler chiudere le proprie frontiere a persone e merci (forse dimenticando che molte aziende europee hanno stabilito in questo paese le proprie sedi legali).
La verità è che la barriera di separazione tra Stati Uniti d’America e Messico (detta anche muro messicano o muro di Tijuana) non è un’invenzione di Trump: la sua costruzione ha avuto inizio nel lontano 1994, durante la presidenza Clinton, con tre progetti (il progetto Gatekeeper in California, il progetto Hold-the-Line in Texas ed il progetto Safeguard in Arizona. Da allora praticamente tutti i presidenti che si sono succeduti hanno provveduto ad ampliare o fortificare questa barriera.
Quanto al TPP, il Trans–Pacific Partnership, l’accordo commerciale Trans-Pacifico con alcuni Paesi asiatici, è molto strano che tutti stiano accusando Trump di non volerlo portare avanti: fino a poche settimane fa, durante la campagna elettorale, entrambi i gruppi politici in corsa per le presidenziali (tra cui Hillary Clinton e Bernie Sanders) avevano dichiarato di non volerlo ratificare.
L’unico che si ostinava a volerlo era Barack Obama, insieme con il TTIP , l’accordo altrettanto contestato (qui sono scesi in campo perfino alcuni premi Nobel per opporsi a questo accordo che tutto è meno che un semplice trattato commerciale, come ripete da anni l’economista della Columbia University Joseph Stigliz. Non è un caso, del resto se questi accordi giacciono da molti, troppi anni in cantiere senza che sia stato possibile giungere ad una conclusione. A difendere TPP e TTIP ormai erano rimasti sono il presidente uscente Obama, la Commissione Europea, Matteo Renzi e pochi governi (autoritari) dell’Asia. In Europa, anche colossi economici come Francia e Germania si sono ormai fatti da parte.
Senza contare che il NO definitivo di Trump al TPP non ha fatto altro che soddisfare una richiesta che al Congresso (dove ancora l’accordo non è stato votato in via definitiva) è appoggiata da entrambi i gruppi politici. Una decisione frutto della strana alleanza tra la destra isolazionista e il movimento progressista che si batte contro una globalizzazione capitalista senza freni e regole. Il tutto con il bene placet delle associazioni ambientaliste di tutto il mondo. in definitiva quello che ha fatto Trump bocciando il TPP è stato solo anticipare (ma questo non è certo merito suo dato che, come detto, si tratta di un processo che va avanti da anni) il de profundis al corporate trade. Un processo già in declino come ha sottolineato Michael Brune, direttore esecutivo di Sierra Club, la più grande e diffusa associazione ambientalista Usa, che ha detto: “Trump sta prendendosi il merito del ritiro dalla defunta TPP, ma la verità è che l’accordo era stato demolita per anni da una vasta coalizione di organizzazione e da milioni di americani che hanno respinto gli affari delle multinazionali e hanno combattuto contro le loro minacce per le nostre famiglie e il nostro clima”.
Qualcosa di cui, stranamente (o forse no), i media sembrano non essersi accorti, impegnati nel cercare di trovare pecche nelle decisioni del presidente eletto. Una persona che certamente non ha l’esperienza e la preparazione di Barak Obama (e di molti dei suoi predecessori), ma che, forse proprio per questo, è meno colpevole di alcune decisioni. Come quella di non andare avanti con i trattati per ridurre le emissioni di CO2. Altra scelta criticata e attribuita interamente al nuovo presidente (non a caso i lavori della COP22 sono stati concentrati su questo tema). Di sicuro certe sue osservazioni fatte durante la campagna elettorale (e confermate dopo le elezioni) non sono giustificabili. Ma non bisogna dimenticare che già durante la presidenza Obama, un ampio gruppo di membri del Congresso (e, ancora una volta, di entrambi gli schieramenti) avevano proposto di estrapolare l’utilizzo del biocombustibile dal calcolo delle emissioni di CO2 in tutto il paese.
E nessuno ha parlato del debito pubblico americano: durante il mandato di Obama è cresciuto mediamente di 3,45 miliardi di dollari al giorno, per un totale di 7,4 trilioni di dollari. Non sarà facile per Trump, nonostante la sua inesperienza, superare questo record considerando che in soli otto anni il suo predecessore ha prodotto il 41% di tutto il debito pubblico della storia degli Stati Uniti d’America!
Ma non sono solo questi gli “errori” della presidenza Obama. Quanti lo lodano per ciò che ha fatto durante i suoi due mandati, dimenticano che le “missioni di pace”, che l’ex presidente aveva promesso di chiudere in tempi brevissimi, durante gli otto anni di mandato, sono aumentate (e senza ottenere alcun risultato concreto). O di problemi sociali come il carcere di Guantanamo e simili: posti dove i diritti umani tanto inneggiati vengono violati di continuo. Obama si era impegnato a chiuderli, ma non lo ha fatto (anzi ha fatto di peggio: per non tenerli sotto gli occhi dei media ha trasferito molti dei detenuti in altri centri di detenzione segreti in altri paesi esteri).
E chi parla di interventi nel settore sociale, dimentica che alcuni dati legati alla presidenza Obama sono da capogiro (eppure, stranamente, nessuno ne parla): giusto per citarne uno, in otto anni il debito degli studenti è raddoppiato. Soldi che gli studenti (e le loro famiglie) hanno chiesto in prestito per frequentare le costose – a volte costosissime – università americane. E che, visto l’andamento dei salari, difficilmente potranno ripagare. I famosi “prestiti Stafford” (dal nome del programma federale che offre tassi di interesse e condizioni di rimborso “favorevoli” che faranno sì che, mediamente, i giovani americani, appena usciti dall’università, cominceranno a lavorare già con un fardello di 35mila dollari a testa. Un peso che, secondo alcune stime, potrebbe non essere mai possibile ripagare (si parla di quasi il 20% degli “studenti mutuatari” dell’Università statale del New Mexico e il 15% di quelli della Ohio University). Il tutto per una somma complessiva che ha raggiunto, durante la tanto lodata presidenza Obama, la cifra stratosferica di 100 miliardi di dollari.
Due sole cose sono sicure riguardo al nuovo presidente eletto Trump: la prima è che è ancora troppo presto per emettere giudizi su cosa realmente riuscirà a fare nei prossimi quattro anni (non bisogna dimenticare che in America il peso del Congresso è ben diverso rispetto a ciò che avviene in Italia e che, oltre oceano, gli scontri tra presidente e le due camere sono durissimi); la seconda è che, nonostante la sua inesperienza e impreparazione non sarà facile fare peggio di quanto hanno fatto i suoi predecessori. E questi erano, per la maggior parte, politici di professione…..