Ogni quattro anni, in occasione delle elezioni presidenziali, i media americani ripropongono la questione della salute dei candidati: un’abitudine che a noi italiani potrebbe sembrare quasi ossessiva, ma sulla quale negli USA si concentra per settimane l’attenzione di giornali e televisioni.
Se il tema sembrava archiviato o al massimo limitato alle scarse informazioni rilasciate da Trump e Clinton con la loro cartella clinica, è ritornato con forza al centro di questa campagna elettorale in seguito alla polmonite diagnosticata a Hillary, che sta costringendo la nominata democratica a una convalescenza forzata.
Fino a poche settimane fa le teorie sui fantomatici malanni della ex first lady erano classificate come inattendibili illazioni e nella maggior parte dei casi si trattava di teorie cospiratorie prive di qualsiasi fondamento, rimbalzate su media conservatori come Fox News.
Ma la diffusione di un video amatoriale in cui Hillary perde le forze e i tentennamenti con cui il suo staff ha tentato all’inizio di classificare la polmonite come semplice “insolazione” hanno costretto anche i giornali più autorevoli a trattare la questione, incentrandola soprattutto sulla mancanza di trasparenza rimproverata alla Clinton, uno dei suoi maggiori punti deboli nei confronti dell’elettorato indipendente che tenterà di conquistare a novembre. Non è un caso che secondo un recente sondaggio di Yougov solo il 45% degli elettori interpellati creda alla versione ufficiale data dalla Clinton sul malore.
Non bastasse, l’imprevisto è giunto in uno dei periodi più complicati nella campagna della ex first lady, il cui vantaggio nei confronti di Trump era letteralmente evaporato in quasi tutti i principali sondaggi nazionali e nelle rilevazioni di alcuni tra i cosiddetti battleground states come Arizona, Georgia, Nevada e New Hampshire, a causa delle indiscrezioni sulla fondazione del marito emerse recentemente.
Insomma, l’ossessione per la riservatezza si sta rivelando un problema anche stavolta, e i numeri ne risentiranno almeno fino al confronto televisivo del 26 settembre. Se lo staff della candidata avesse reso noto qualche giorno prima il fastidioso malanno invece di essere costretto dagli eventi, probabilmente avrebbe evitato molte critiche diminuendo la portata della notizia.

Dal punto di vista politico, in questi giorni l’assenza forzata di Hillary ha obbligato Bill Clinton e Barack Obama a sostituirla in alcuni impegni, mentre con rara saggezza Donald Trump ha per una volta evitato di infierire sulla questione, concentrandosi, almeno per ora, su altro. Pur sotto pressione per delle recenti indagini in corso che coinvolgerebbero la propria fondazione, The Donald è partito all’attacco criticando la gaffe con cui alcuni giorni fa Hillary aveva definito metà dei suoi sostenitori “deplorevoli” (per di più durante un evento con alcuni facoltosi donors), mentre martedì il tyccon ha annunciato i dettagli di un piano di assistenza sanitaria per l’infanzia (ispirato, per sua stessa ammissione, dalla figlia Ivanka), che comprende deduzioni fiscali e un incremento della spesa sociale a favore delle famiglie con redditi bassi. L’obiettivo è chiaro: aumentare il proprio appeal nei confronti dell’elettorato femminile avanzando una proposta politica sensata e lontanissima dall’estremismo neoliberista del GOP.
Insomma Trump è stato delicato sulla salute di Hillary, ma dal canto suo ha dimostrato di non essere più trasparente della rivale quando si tratta del proprio bollettino medico. La breve lettera a suo tempo rilasciata dal proprio dottore era alquanto ridicola, e diventava persino comica quando affermava, con linguaggio trumpiano sospetto, che il magnate sarebbe stato “l’individuo più sano mai eletto alla presidenza”.
Un’affermazione assurda, anche se indubbiamente sono innumerevoli i malanni dai quali furono affetti i presidenti americani nella Storia: dalla depressione di Lincoln alla poliomielite di Franklin Delano Roosevelt ai molti acciacchi di JFK. La differenza era che in passato si potevano nella maggior parte dei casi nascondere con successo eventuali problemi medici, mentre oggi è incredibilmente più difficile. E in un’epoca dominata dai social network e nella quale l’opinione pubblica pretende di essere informata su tutto, lo stato di salute dei candidati ha una rilevanza molto maggiore che in passato.
Nella storia politica recente ci sono inoltre due casi in cui a celare informazioni essenziali non furono presidenti, ma candidati alla presidenza. Il primo è quello del senatore democratico Paul Tsongas, che durante la campagna elettorale delle primarie contro Bill Clinton nel 1992 nascose al pubblico la persistenza di un tumore contratto in passato, morendone poi alcuni anni dopo (se fosse stato eletto sarebbe morto in carica); il secondo è invece quello di Thomas Eagleton, running mate scelto dal democratico George McGovern nel 1972, il quale celò dei trascorsi ospedalieri per crisi depressive e fu sostituito all’ultimo minuto quando la stampa calcò la mano sulla notizia. In ogni caso quell’anno sarebbe stata una disfatta disastrosa per i democratici, con un Richard Nixon eletto a furor di popolo.
Vi furono infine casi in cui l’abilità del candidato risultò essenziale per zittire i rumors sulle proprie debolezze fisiche, come quando nel 1984 Reagan liquidò la questione dell’età avanzata e le voci su una presunta demenza senile vincendo nettamente il dibattito televisivo contro Walter Mondale e dimostrando così il proprio vigore agli elettori.
Nell’eventualità di un pressing sul tema della salute durante il primo attesissimo duello con Trump, Hillary potrebbe addirittura decidere di trasformare lo spiacevole imprevisto di domenica in un punto di forza, enfatizzando il proprio attaccamento al lavoro e promettendo di buttarsi anima e corpo (è il caso di dirlo) nel nobile ufficio della presidenza.
Dopotutto, rimproverata spesso di essere un personaggio “costruito”, Hillary potrebbe per una volta mettere in campo uno dei suoi indubbi pregi: l’incrollabile forza di volontà.