Scossi dalle travolgenti vittorie di Donald Trump, nella settimana appena trascorsa i media sembravano essersi quasi scordati di Bernie Sanders. Il sempre più probabile scontro tra The Donald e Hillary Clinton pareva aver trasformato quello che restava delle primarie democratiche in un trascurabile dettaglio.
Eppure il settantaquattrenne senatore del Vermont continua a crederci e martedì è tornato a vincere in West Virginia, dove ha sconfitto la rivale con oltre il 51 % delle preferenze.
Piegati negli anni da una crisi occupazionale senza precedenti che ha investito il settore delle miniere di carbone presenti nello stato, gli elettori del Mountain State hanno preferito fidarsi del messaggio più “radicale” di Bernie piuttosto che delle promesse della ex First Lady. Entrambi i candidati hanno proposto programmi simili, consistenti in incentivi governativi per aiutare le comunità di ex lavoratori del comparto minerario, e nel corso di tutta la campagna elettorale si sono ambedue scagliati contro le fonti energetiche inquinanti, carbone in primis. Ma mentre Hillary è ritenuta (insieme a Obama) direttamente responsabile dello sfacelo economico che li ha investiti, e ha dovuto far fronte a dure proteste per via del tono sprezzante con cui a marzo aveva caldeggiato la chiusura delle miniere, le bordate antisistema di Bernie continuano a fare breccia tra la working class bianca.
Intendiamoci: non saranno i 37 delegati del West Virginia a fermare la ex First Lady, e molto probabilmente l’eroica resistenza di Sanders da qui al grande duello del 7 giugno in California sarà inutile a impedire all’avversaria di raggiungere la nomination. Tuttavia le ultime votazioni democratiche confermano l’estrema difficoltà della Clinton a portare dalla sua una larga fascia di elettorato, la cui conquista sarà cruciale a novembre, che si muove invece verso Trump e Sanders. Non è d’altronde un caso che in tutte le proiezioni il senatore del Vermont abbia margini di vantaggio molto più alti di Hillary nell’ipotetico match con Trump. Entrambi gli outsider, seppur in modi opposti, hanno generato entusiasmo intorno alle loro candidature, facendo breccia sugli indipendenti e portando legioni di sostenitori al voto.
Insomma, di fronte al miliardario newyorkese (un mentitore seriale che fa del populismo la sua arma migliore) su una serie di temi caldi che vanno dagli accordi economici di libero scambio alla regolamentazione di Wall Street, dalle politiche occupazionali fino alla politica estera, Hillary potrebbe essere paradossalmente scavalcata a sinistra. Sul piano della propaganda ovviamente, non su quello delle proposte serie, che non rientrano minimamente nel repertorio del magnate.
C’è poi un’altra circostanza che rende la candidatura della ex First Lady particolarmente rischiosa di fronte all’imprevedibile tycoon. Si tratta del cosiddetto “emailgate”, ovvero dell’inchiesta riguardante la gestione della sua posta elettronica quando ricopriva il ruolo di Segretario di Stato, tra il 2009 e il 2013. In quel periodo la Clinton utilizzò il proprio indirizzo email personale anche per la corrispondenza di lavoro, facendosi inoltre installare per questioni di privacy un server privato nella sua abitazione di Chappaqua, New York.
E se la prima scelta rientrava nella prassi in voga tra molti dei suoi predecessori e, pur opinabile, non è contraria alla legge a patto di rispettare le norme previste dal protocollo per l’archiviazione della corrispondenza, la questione del server privato è molto più grave (perché insolita) e potrebbe essere valutata dall’accusa come un modo di eludere i controlli di sicurezza diffondendo materiale top secret per scopi privati.
A indagare sul caso è l’FBI diretta dal repubblicano James B. Comey (nominato a capo dell’agenzia da Obama nel 2013) e in questo frangente è in corso la fase delle deposizioni, che hanno coinvolto numerosi collaboratori della Clinton. La stessa Hillary sarà chiamata a deporre nelle prossime settimane.
In molti credono che sul piano penale la vicenda si concluderà in un buco nell’acqua, ma le implicazioni civili dell’indagine potrebbero continuare nel pieno della campagna elettorale per le presidenziali, rendendo pubblico il contenuto delle mail private dell’ex Segretario di Stato. È fin troppo ovvio che la questione, a prescindere dalla sua fondatezza, espone Hillary a una gogna mediatica che potrebbe costargli cara in termini elettorali, a tutto vantaggio di Trump.
Non è la prima volta che la ex First Lady finisce al centro di un polverone mediatico, ma lei e il marito Bill furono spesso bersaglio di finti scandali e controversie gonfiate ad arte per farli fuori. È una maledizione che perseguita i coniugi Clinton da oltre trent’anni, a partire dallo scandalo Whitewater, nato da alcuni falliti investimenti nel campo immobiliare quando Bill era governatore dell’Arkansas alla fine degli anni ’70. Da allora il copione si è ripetuto più volte: dalla controversia Travelgate , del 1993, che riguardò il licenziamento di 7 dipendenti della Casa Bianca, al celebre Sexgate, fino alla recente commissione d’inchiesta sulle fantomatiche responsabilità di Hillary nella gestione della crisi seguita agli attentati di Bengasi del 2012, che costarono la vita all’ambasciatore americano Chris Stevens.
Questa volta, però, la controversia delle email arriva nel momento meno opportuno e può seriamente compromettere l’ascesa della Clinton alla Casa Bianca.
Nel frattempo, rimasto senza più avversari alle primarie, diventate ormai una pura formalità, Donald Trump si è distratto iniziando la campagna denigratoria contro la sua futura avversaria, ingaggiando una guerra a colpi di tweet con la senatrice democratica Elisabeth Warren, e, non bastasse, punzecchiando il neo sindaco di Londra Sadiq Khan.
Martedì The Donald ha vinto senza problemi in West Virgina e Nebraska, e ora prova a ingraziarsi il partito. In vista delle presidenziali, infatti, il tycoon ha un disperato bisogno di avere dalla sua la grande macchina logistica del Grand Old Party, indispensabile all’organizzazione e al finanziamento della costosissima campagna elettorale. Ad oggi il magnate newyorkese ha scucito di tasca sua 40 milioni di dollari; adesso però le cifre saliranno vertiginosamente superando il miliardo e mezzo. Troppo persino per un paperone come lui.
È per questo che Trump cerca agganci anche a Wall Street, e ha recentemente incluso nel suo staff Steven Mnuchin, personaggio con fortissimi legami nel mondo della finanza.
Dal canto suo, l’establishment repubblicano ha un atteggiamento ambiguo nei confronti del magnate. Una corrente sempre più numerosa, costretta dagli eventi, sembra essere saltata sul carro del vincitore, mentre continua a esistere uno zoccolo duro, di cui fanno parte tra gli altri Mitt Romney e tutta la dinastia Bush, che non vuole avere nulla a che spartire con il tycoon.
Nella giornata di giovedì The Donald incontrerà a Washington la leadership repubblicana capeggiata da Paul Ryan, capogruppo del GOP alla Camera, il quale nei giorni scorsi si era detto disponibile ma “non ancora pronto” a supportare personalmente il futuro nominato. A quanto pare, è arrivato il momento di fare i conti con il nuovo padrone.