Le primarie nello stato di New York sono ormai alle porte in quella che si annuncia come una sfida cruciale tra i candidati di entrambi i partiti per la nomination. Nei giorni scorsi, pur di guadagnarsi le simpatie dei newyorkesi in vista del 19 aprile, tra un comizio e l’altro gli aspiranti inquilini della Casa Bianca si sono gettati a capofitto nello stile di vita della Grande Mela, collezionando una serie di memorabili gaffe.
Ne sa qualcosa John Kasich, che dopo aver osato impugnare una forchetta per mangiare la pizza all’inizio della sua campagna newyorkese (peccato imperdonabile da queste parti), la scorsa settimana si è concesso nel Bronx un pranzo tutto italiano nel popolare ristorante di David Greco, impressionando gli astanti per la sua incredibile voracità. Per dimostrare di essere “una del popolo” Hillary Clinton ha deciso di prendere la subway, tentando invano di oltrepassare il tornello e meritandosi una spassosissima imitazione del Saturday Night Live. L’attempato Bernie Sanders ha infine affermato di non conoscere l’esistenza della MetroCard, credendo che il mezzo andasse ancora a gettoni come ai tempi in cui viveva a Brooklyn svariati decenni fa.
In questa divertente lotta per il titolo di “true newyorker”, l’unico a non avere bisogno di mettersi in mostra è stato per una volta Donald Trump, che oltre ad avere sempre vissuto nella Grande Mela incarna perfettamente lo stereotipo (negativo) del newyorkese doc: chiacchierone, materialista e con un’altissima considerazione di sé.
Anche sul piano politico il magnate è perfettamente a suo agio rispetto agli avversari conservatori, e spera di vincere una larga fetta dei 95 delegati messi in palio nello stato. Recentemente Trump ha incassato persino l’appoggio dell’ex sindaco Rudy Giuliani, suo amico personale, compagno di partito, e ovviamente “fellow newyorker”.
L’aria di New York non sembra al contrario piacere a Ted Cruz, il quale insegue il tycoon solo in terza posizione. La ragione? Nel dibattito repubblicano del 14 gennaio scorso ebbe l’ardire di criticare i “valori” eccessivamente liberal della Grande Mela, attirandosi l’ira funesta dei newyorkesi, che non gli hanno perdonato lo sgarbo.
Al di la dell’autolesionismo delle frasi di Cruz, puntando il dito sui “New York values” e dichiarando che “non molti conservatori escono fuori da Manhattan”, il senatore texano metteva in luce un’acclarata verità storica. Non solo la Big Apple, ma l’intero Empire State (comprese le regioni rurali dell’upstate e della Hudson Valley) sono infatti la patria di una corrente centrista storicamente avversa alla destra religiosa rappresentata da Cruz. La mutazione genetica del GOP ha però quasi totalmente cancellato i vecchi repubblicani moderati, finiti oggi nelle fauci del populismo trumpiano.
Senza lo scomodo rivale texano la vittoria di Trump a New York sembra dunque scontata; bisognerà solo valutare le sue dimensioni e capire in che misura inciderà sulle prossime sfide in stati altrettanto ricchi di delegati, come la Pennsylvania, il Maryland e l’Indiana.
Comunque vada, da qui a luglio l’establishment del Grand Old Party continuerà a tramare contro il tycoon, cercando di deludere la sua ambizione a raggiungere la maggioranza e puntando a una convention aperta. Trump lo ha ribadito martedì sera, ospite insieme ai familiari nel Town Hall della CNN, lamentandosi (non a torto) di un sistema di regole usato strumentalmente contro di lui dalla dirigenza repubblicana.
Dall’altra parte della barricata, per entrambi i candidati democratici la sfida è invece ben più rischiosa ed entro certi limiti inedita. Bisogna infatti tornare indietro di quasi trent’anni per trovare le ultime primarie democratiche nell’Empire State che fecero la differenza. Era il 1988, e dopo essersi combattuti con alterne fortune dividendosi il voto degli stati del sud, i candidati papabili erano rimasti in tre: il front runner e governatore del Massachusetts Michael Dukakis, l’attivista afroamericano Jessie Jackson e a seguire il senatore del Tennessee Al Gore. Il Supertuesday, introdotto proprio quell’anno, non si era rivelato decisivo e la battaglia cruciale si spostò così a New York, guarda caso il 19 aprile. Dukakis vi giungeva da grande favorito dopo aver vinto in Wisconsin, e al termine di una combattuta campagna elettorale riuscì a spuntarla guadagnando un vantaggio che gli consentì di ottenere poi la nomination. Le sue ambizioni si infransero però alle successive elezioni presidenziali, nelle quali dovette arrendersi al vicepresidente uscente George H. W. Bush.
Oggi, mettendo le mani sulla maggioranza dei 291 delegati assegnati dall’Empire State, anche Hillary otterrebbe un distacco quasi insormontabile nei confronti del suo avversario, mentre la vittoria di Bernie potrebbe rappresentate uno dei passi decisivi nell’esaltante rimonta del senatore del Vermont, dandogli la spinta necessaria a mettere seriamente in pericolo il vantaggio della Clinton.
Con l’ultima affermazione nei caucuses del piccolo stato del Wyoming Sanders ha messo in archivio il settimo successo consecutivo, ma è ancora troppo poco per sperare in una svolta. Nel partito democratico il sistema di assegnazione dei delegati è sempre proporzionale e ciò rende la rimonta di Bernie particolarmente faticosa. Non bastasse, oltre a vittorie con margini piuttosto ampi, Sanders deve portare dalla sua anche i numerosi super – delegati, cioè i rappresentanti di partito liberi da vincoli di voto in sede di convention, che oggi appoggiano maniera quasi unanime Hillary.
Se unificando la base democratica (comprese le minoranze) e smentendo i sondaggi dovesse trionfare a New York, però, Bernie infliggerebbe alla ex First Lady un colpo durissimo. E non solo in termini matematici. Eletta al senato dal 2001 al 2009 proprio nell’Empire State, la Clinton è infatti una “newyorkese d’adozione” e qui ha uno dei suoi feudi elettorali più fedeli. Vedere espugnata la sua roccaforte sarebbe un danno di immagine gravissimo e potrebbe influenzare in modo inaspettato i risultati nei successivi contesti.

Insomma, tutti e due i democratici non hanno alternative: sono obbligati a vincere, e data l’importanza della posta in palio stanno girando in lungo e in largo lo stato, da Albany a Manhattan, da Syracuse ad Harlem, da Long Island fino al Bronx e a Brooklyn, dove entrambi hanno il proprio quartier generale. Mentre cercano di stanare gli indecisi si lanciano nel frattempo violenti attacchi, definendosi reciprocamente “non qualificati” a occupare la Casa Bianca. Il faccia a faccia tra i due organizzato giovedì sera dalla CNN sarà probabilmente un duello in cui non mancheranno colpi bassi in vista della resa dei conti.
A dire il vero, così come innumerevoli altre volte durante questa lunga maratona elettorale, oltre a lottare contro buona parte dei pezzi da novanta del suo partito Bernie Sanders deve difendersi dagli attacchi di quello che lui stesso definisce “media establishment”, il quale a New York ha scelto di appoggiare la Clinton.
In un editoriale pubblicato martedì dal diffuso tabloid newyorkese Daily News l’endorsement a Hillary ha assunto i toni di un tifo entusiastico. L’articolo in questione è una vera chiamata alle armi a favore della ex First Lady: “il 19 aprile, i democratici newyorkesi avranno un inedito ruolo nella nomination. Trovano in Clinton una guerriera realista e preparatissima. Hanno nel suo rivale Bernie Sanders un sognatore che conduce un’appassionata guerra con la realtà”.
L’antipatia del giornale newyorkese nei confronti del senatore del Vermont non è una novità, ma si era già manifestata in una insidiosa intervista del 4 aprile , e in una serie di violente bordate contro la presunta tiepidezza di Bernie nelle politiche di controllo delle armi. Nulla di simile, va da sé, è stato riservato a Hillary, anche se la ex First Lady avrebbe fin troppi peccatucci da farsi perdonare.
Per riprendersi dal velenoso clima della campagna elettorale, venerdì Sanders si recherà a Roma, per assistere a un convegno organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali al quale è stato invitato. Prendendo spunto dalla commemorazione dell’enciclica Centesimus Annus, scritta da Giovanni Paolo II nel 1991, i temi dell’evento saranno l’economia e l’ambiente, particolarmente cari sia al candidato democratico sia a Francesco. E chissà che l’atmosfera del Vaticano, in cui una nuova aria si respira già da tre anni, non porti fortuna a Bernie.