In Europa, il risultato del super martedì elettorale statunitense non ha destato più di tante sorprese. Che Donald Trump, almeno in questa fase, continuasse a battere il tempo in casa repubblicana, era dato per scontato. Che Hillary Clinton trovasse nuovi appoggi come candidato esperto e garante del sistema era ritenuto non solo probabile ma certo. Semmai, in un’Europa abituata a guardare al risultato dei caucus di partito non in termini di voti elettorali ma di numero degli stati che si schierano per l’uno o l’altro candidato, l’attenzione è andata a Bernie Sanders, vincitore in quattro stati, e a come in casa repubblicana si creassero o non le condizioni per una coalizione conservativa alternativa in grado di azzoppare l’anatra Donald.
La tornata dei caucus del 15 potrebbe fornire risposte illuminanti in casa repubblicana e dare le dimensioni definitive del fenomeno Sanders, poi, secondo la più parte dei commentatori europei, bisognerà aspettare le convenzioni di luglio. Quella repubblicana, prevista il 18 a Cleveland, dovrà probabilmente sbrogliare la matassa Donald Trump e condizionarne il programma; quella democratica, fissata il 25 a Filadelfia non disperdere la novità dei contenuti di quella che già ora, per le inaspettate dimensioni, è percepita in Europa come l’affermazione di Bernie Sanders. Stando così le cose, nessuno si azzarda a sparare previsioni sul quarantacinquesimo presidente: l’attenzione va piuttosto a come, attraverso gli umori espressi dai caucus, la presente America si stia disvelando ad osservatori e opinione pubblica.
Una premessa. A poco più di settant’anni dalla fine della Seconda guerra, a sessantacinque dalla prima Comunità europea, a più di un quarto di secolo dalla caduta del muro di Berlino, i legami atlantici risultano meno stringenti che in passato. Il sogno americano non esiste più da un pezzo in Europa: i giovani del vecchio continente vedono gli Stati Uniti come una opportunità tra tante, non certo la migliore in assoluto, come è stato invece per molte generazioni degli antenati. La percezione generale è che in Europa ci sia oggi più democrazia che negli Stati Uniti, uno stato meno poliziesco, una società più umana dove, per dirne qualcuna, la gente non circola armata e non esiste pena di morte, c’è meno razzismo, il sistema sanitario pubblico soccorre l’indigente, la politica di accoglienza per gli immigrati è più generosa, e così via raccontando e talvolta equivocando. In generale l’Europa sembra una società più aperta, con meno discriminazioni sociali: insomma Europa società del welfare così come gli Stati Uniti società del warfare o, come ha scritto un creativo politologo statunitense, Robert Kagan, Europa come Venere e America come Marte. Tutto questo per dire che il circo mediatico imbastito intorno alla tornata elettorale statunitense, non coinvolge e non coinvolgerà, come fu invece nei decenni di Guerra fredda, il vasto pubblico dell’alleato europeo.
Però dagli Stati Uniti gli europei vogliono ancora protezione militare e ombrello nucleare. Di conseguenza mettono la loro politica estera e di sicurezza, pur abbellendola di presunzioni autonomistiche e velleità ireniche, nel grande solco di sorella America, che dell’aquila armata ha fatto il suo simbolo. Ed è da qui che parte paradossalmente la più forte critica europea all’attuale presidenza: avrebbe indebolito il ruolo del cosiddetto Occidente, lasciando scorrazzare eserciti e para-eserciti in Medio Oriente e Mediterraneo, non contrastando i rischi nucleari di Iran e Nord Corea, lasciando alla dispotica Cina non solo un importante pezzo di mercato ma un pezzo dell’egemonia americana sul Pacifico, abbandonando al suo destino opposizioni e stati che si opponevano alla neo autocrazia russa e al suo espansionismo, così come ai rigurgiti ottomani dell’élite islamica che governa l’alleata Turchia.
Su queste due apparentemente contraddittorie percezioni e pretese, che non corrispondono necessariamente al regno del vero ma certamente a quello delle opinioni pubbliche che poi generano consenso elettorale e quindi i governi europei con i quali il nuovo presidente dovrà lavorare, si costruisce un’evidente incoerenza. Da un lato, in particolare negli ambienti lib-lab, si fa il tifo per il nuovo che uno come Bernie Sanders vorrebbe fosse innervato nella società americana, così simile ai programmi delle socialdemocrazie di successo (Scandinavia alla Olaf Palme, Germania del boom e dell’östpolitik, Italia del centro sinistra, Francia di François Mitterrand, Austria felix di Bruno Kreisky), dall’altro si vorrebbe l’America più assertiva, quella che viene strombazzata, con gli eccessi propri del personaggio, nella piattaforma, sinora ricca da consensi, di colui che può precipitare l’America negli abissi (Mitt Romney, all’Hinckley Institute of Politics di Salt Lake City, due giorni fa), Donald Trump. Ovvio che di quest’ultimo non piacciano le prese di posizione razziste e fascistoidi, ma sinora in Europa non si cade nella trappola dei giudizi facili che ci furono, per fare un esempio, verso la candidatura dell’attore Ronald Reagan, per offrire, a bilancio, un giudizio non altrettanto negativo. Forse perché tranquillizzano le distanze che il vertice del partito repubblicano continua ad assumere verso la candidatura miliardaria e strampalata, come quella espressa dallo speaker al Campidoglio Paul D. Ryan nel Super Tuesday: “If a person wants to be the nominee of the Republican Party … must reject any group or cause that is built on bigotry. This party does not prey on people’s prejudices. We appeal to their highest ideals. This is the party of Lincoln”.
In quest’ambito la candidatura di Hillary Clinton sembra, vista dall’Europa, la più equilibrata. Ha forte il senso del realismo e si colloca nel “possibile”. Ha mestiere da vendere e sta tutta dentro le contraddizioni e le ingiustizie irrisolte della società americana, a cominciare da quelle che toccano la gran parte dei neri e ancora troppe donne. Incarna una linea di politica estera moderata e non avventurista, ma che pure intende ricominciare a mostrare dei muscoli tenuti sin troppo a riposo da Barack Obama. A Bernie Sanders, alla sua sinistra, ha rimproverato di essere “monotematico” e di non disporre di strumenti per corrispondere a tutte le esigenze della complessità della società americana, Bernie Sanders, tuttavia, continua ad avere buon gioco, nel proporre all’elettorato democratico, i temi cari a ceti medi, white collars e giovani colti.
Si è avuto modo di richiamare i risultati di una ricerca che l’Economic Policy Institute di Washington ha fatto circolare di recente. I dati raccolti dicono che dalla metà degli anni ’70, agli aumenti di produttività delle imprese statunitensi non ha fatto seguito l’aumento della retribuzione dei lavoratori, e che il risultato della crescita si è concentrato solo al vertice della piramide, azionisti e dirigenza. Tabelle alla mano, illustra come il 90% di chi si colloca nella parte inferiore della scala sociale non abbia avuto alcun aumento di reddito dai tempi della presidenza Reagan (1980-1988). Non sorprende che gli Stati Uniti siano percorsi da rabbia e, nei casi estremi dall’odio che si manifesta anche attraverso le ricorrenti carneficine di pazzi armati e sanguinari. Nella cornice generale di paura e intimidazione, seguita all’11 settembre, la fa da padrona il bisogno di sicurezza, e di conseguenza rari sono i momenti nei quali il dissenso interno riesca a mobilitarsi in termini organizzati. Quella rabbia e quel dissenso si esprimono oggi nei caucus di partito e lo faranno anche con più efficacia nel voto di novembre, partendo dalla consapevolezza che il se-dicente campione mondiale della democrazia è così ingiusto da mettere il 42% della sua ricchezza nazionale nelle mani di appena l’1% della popolazione (dati 2012, università di California Berkeley, ma nel frattempo si è certi che l’1% abbia calamitato ulteriori decimi). E qui potrebbe trovarsi molte delle ragioni che spiegano il perché le estreme nei due partiti stiano raccogliendo consensi.
Il mercato politico europeo (diversamente dagli USA che sa accelerare o frenare esprimendo anche figure “estreme” al vertice), non ama molto le novità radicali: con poche eccezioni (non casualmente nel paese europeo più simile agli Stati Uniti, l’Inghilterra, con i due casi di segno apposto Margaret Thatcher e Tony Blair; i casi Berlusconi in Italia e Tsipras in Grecia sono certamente da rilevare, ma si ammetterà che vengono da dinamiche davvero eccezionali e drammatiche), si è sempre dotata di governi centristi aperti, a seconda delle stagioni, sulla destra o sulla sinistra. Per questo, guardando alla campagna americana, gli europei finiranno per tifare per la solida Hillary Clinton, sempre che non scenda in campo l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg. Sarebbe allora una bella partita, di quelle che, a chi non è tifoso di nessuna delle squadre in lizza, fa esclamare lo sportivissimo: vinca il migliore!