Out the Frame è il titolo di questa rubrica e quindi, nella settimana post Oscar, pare quasi scontato dare spazio a un regista sorprendente che ha costruito il suo debutto proprio su un utilizzo sconvolgente del “fuori campo”. Si tratta di Nemes Jeles László, in occidente semplicemente László Nemes, il cui Son of Saul si è aggiudicato la statuetta per il miglior film straniero.
Nemes ha da poco compiuto 39 anni, è ungherese di Budapest – cresciuto a Parigi – e Son of Saul è il suo primo lungometraggio, un film che ha raccolto una quantità di premi quasi incalcolabile. Tre in particolare sono allori da Grande Slam: il Grand Prix speciale della giuria a Cannes, il Golden Globe e, appunto, l’Oscar. Una tripletta ancora più notevole se si pensa che Nemes ha deciso di debuttare con un film su Auschwitz, testo, quindi, inevitabilmente e giustamente destinato a essere discusso, sezionato e anche osservato con un occhio particolarmente diffidente: il tempo scorre e ci allontana dalla tragedia più spaventosa del XX secolo e il rischio che, allentandosi pericolosamente la memoria, si tenda a spettacolarizzare e mercificare il dolore è sempre più forte.

Nemes, il cui film è stato riportato nelle sale newyorchesi dal trionfo agli Oscar, non solo riesce a evitare ogni forma di enfatica ambiguità, ma si spinge fino a smontare e a rimontare il dispositivo formale per dire proprio l’indicibilità di un orrore di tale portata: lo sterminio scientifico degli ebrei nella Soluzione Finale è un abominio di tale portata che per Nemes non può essere né detto né mostrato, ma solo “suscitato” intellettualmente ed emotivamente in una faglia tra il simbolico e l’immaginario.
Così, la scelta estetica fortissima: via la profondità di campo, frame in 1.37:1 (4:3), solo primi piani ravvicinati, di volto o di terga, del protagonista, mentre, sfocato e indecifrabile, l’orrore che lo circonda rimane, appunto, out the frame. Quella che Rivette o Daney o altri ancora nel corso della storia del cinema hanno definito la tragedia più irraccontabile tra quelle contemporanee viene, effettivamente, “non detta” e “non mostrata”, colta, al limite, nello sguardo di Saul, il protagonista, uno sguardo che, mai come stavolta, davvero ci ri-guarda.
In questo meccanismo formale, il regista ungherese incastra una sceneggiatura equilibrata e studiata alla perfezione. Saul Ausländer (interpretato magnificamente dal poeta ungherese Géza Röhrig) è un membro dei Sonderkommando di Auschwitz, cioè i gruppi di prigionieri costretti dai nazisti ad assisterli nello sterminio dei loro compagni, in attesa della propria morte. Mentre lavora in uno dei forni crematori, Saul scopre il cadavere di un ragazzo in cui crede di riconoscere suo figlio. Mentre i suoi compagni tentano un’impossibile fuga, in lui si fa spazio un’unica ossessione: salvare le spoglie del ragazzo e trovare un rabbino per seppellirlo. Che sia effettivamente suo figlio, importa poco: Saul vuole dargli degna sepoltura e in qualche modo seppellire il suo senso di colpa, recuperando quella dignità che è già stata “cremata” dai nazisti.
Il “modo” in cui Nemes mette in scena questa vicenda implica diverse conseguenze. In primo luogo – e difficilmente era accaduto, al cinema, prima d’ora – di avere l’impressione, guardando un film sui campi di concentramento, di essere letteralmente sprofondati all’inferno. Son of Saul è veramente un incubo, la cui claustrofobia è decisamente moltiplicata dalla scelta del soffocante formato in 4:3. A tratti sembra un film zombie, in cui tutti, vivi e cadaveri, sono in realtà già morti, solo che alcuni camminano, altri no. La seconda conseguenza ha a che fare con il pudore e con il rispetto: Nemes ha avuto parte della famiglia assassinata ad Auschwitz e ha dichiarato di aver sempre trovato offensiva la retorica che spesso caratterizza i film sui lager. Così ha metabolizzato libri come Requiem per un massacro di Elem Klimov (1985) e La voce dei sommersi, testi che raccolgono le vere testimonianze dei Sonderkommando, compiendo una scelta di campo, perfettamente raccontata da lui stesso nelle note di regia:
“Insieme al direttore della fotografia e allo scenografo abbiamo deciso, prima di iniziare le riprese, che ci saremmo attenuti a una serie di regole: il film non deve essere visivamente bello e accattivante; non possiamo fare un film dell’orrore; seguire Saul vuol dire non andare oltre la sua presenza e il suo campo visivo e uditivo; la cinepresa è la sua compagna e lo affianca in questo inferno. Abbiamo anche scelto di girare in pellicola 35mm e di usare solo procedimenti fotochimici tradizionali nei vari momenti della produzione. Era l’unico modo di mantenere una certa instabilità nelle immagini e quindi essere capaci di filmare quel mondo in modo organico. La sfida era quella di raggiungere il pubblico in termini emotivi, cosa che il digitale non permette. Queste scelte implicano anche un’illuminazione diffusa, la più semplice possibile, un unico obiettivo, il 40mm, e un formato ristretto, il classico 1:1.37, che non allarga il campo visivo come i formati panoramici. Dovevamo restare sempre al livello visivo del protagonista e seguirlo”.

In questa riduzione del campo visivo, quindi, si sposano con sorprendente coerenza orrore e pudore, dando vita a uno degli esordi più interessanti degli ultimi anni. Va detto che Nemes ha un pedigree artistico di tutto rispetto: figlio del regista teatrale, televisivo e cinematografico András Jeles, è cresciuto a Parigi ricevendo una formazione intellettuale e culturale molto raffinata. Ha iniziato a occuparsi di cinema ed è stato l’assistente del grande Béla Tarr sul set di The Man from London. Ha girato diversi cortometraggi, tutti molto interessanti, in cui il suo talento emerge in modo piuttosto chiaro. Su YouTube è visibile With a Little Patience, del 2007, che vi riportiamo in questa pagina. Guardatelo e tenete d’occhio questo giovane regista ungherese: la sua precoce consacrazione prelude certamente a una carriera straordinaria.
Guarda il cortometraggio With a Little Patience:
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