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December 8, 2015
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December 8, 2015
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Che fine hanno fatto i vecchi repubblicani?

Massimo ManzobyMassimo Manzo
Time: 6 mins read

Stando agli ultimi sondaggi, Donald Trump sarebbe in testa nelle primarie repubblicane rischiando di diventarne il candidato alle elezioni presidenziali del 2016. Nonostante sia inviso a buona parte del suo stesso schieramento, lo stravagante magnate newyorkese incarna lo stereotipo contemporaneo più diffuso del Gran Old Party: cinico, ultraliberista e anche un po’ ipocrita. Nell’immaginario collettivo il partito repubblicano è diventato l’emblema del volto più conservatore dell’America, facendo di tutto per confermare tale fama. Per decenni, però, le idee politiche che caratterizzano il GOP attuale sono state ben lontane da quelle di movimenti come il Tea Party, di presidenti come Reagan o di gente come Trump. Anzi, in pochi sanno che nella lunga storia dei repubblicani è esistita anche un’anima progressista, che ha contribuito in modo fondamentale alla costruzione della moderna nazione americana.

Ne è convinta la storica Heather Cox Richardson, professoressa del Boston College e autrice del saggio To make men free. A History of the Repubblican Party (Basic Books, 2014), che ricostruisce le turbolente vicende che da Abraham Lincoln portano a George W. Bush, deludendo molti dei militanti più intransigenti del Grand Old Party. Con sorpresa, si scopre così che su molti temi, dall’immigrazione al welfare fino ai diritti civili, i candidati in lotta nelle attuali primarie bollerebbero senza appello i padri nobili del loro partito come “estremisti”.

Conoscere il passato (e preoccuparsi del futuro) del Republican Party non è un passatempo per vecchi nostalgici, ma aiuta a capire una delle grandi contraddizioni dell’America, con cui anche il GOP ha dovuto fare i conti fin dalla sua fondazione, 160 anni fa. Per la storia, il nodo da sciogliere sta nell’eterno conflitto tra i valori sottesi ai due documenti fondativi degli USA: la Dichiarazione di Indipendenza del 1776, che promette a tutti i cittadini pari opportunità (equality of opportunity) e la Costituzione del 1787, la quale invece fonda il suo sistema di leggi sulla protezione della proprietà (protection of property). Si tratta di una differenza in grado di influenzare in modo opposto la concezione del ruolo governativo e di conseguenza gli interessi economici e sociali a cui dare la precedenza. Oscillando tra questi due estremi, il GOP è passato così dal difendere la classe media incentivando investimenti pubblici, una tassazione equa e leggi che regolassero il mercato, a politiche incentrate sulla deregulation selvaggia, che strizzano l’occhio alle grandi oligarchie finanziarie liquidando qualsiasi intervento statale come una pericolosa forma di “socialismo”.

Anni gloriosi. È senza dubbio nei primi anni di vita che il Grand Old Party lasciò un’impronta indelebile nella storia americana. Nati nel 1854 da una costola del partito Whig (erede della tradizione dei federalisti di Hamilton), i repubblicani vollero dare rappresentanza alla nascente middle class dei piccoli proprietari terrieri indipendenti, contrapposta all’oligarchia schiavistica dei grandi latifondisti del sud, protetta invece dal partito democratico dell'epoca. Sotto la guida di Lincoln, padre spirituale del GOP e primo presidente repubblicano, l’ideale di pari opportunità fu innalzato a pietra angolare della nuova nazione, rifondata da zero sulle macerie dalla sanguinosa guerra civile. Per lui, l’anima dell’America andava ricercata nella Dichiarazione di Indipendenza, concepita su un principio eterno, più forte di qualsiasi legge, persino della Costituzione: quello secondo cui “tutti gli uomini sono stati creati uguali”. Di conseguenza, lo stato doveva creare le premesse affinché ciascuno, in piena libertà, potesse “ricercare la felicità”: “nel corso della giovinezza Lincoln e i suoi amici, tutti poveri, avevano visto come la classe dei ricchissimi proprietari di schiavi fosse riuscita ad acquisire una pericolosa influenza nella gestione della cosa pubblica. Gli stessi schiavisti stavano creando un sistema di leggi a loro favorevole, il quale, se da un lato gli consentiva di accumulare sempre maggiori ricchezze, dall’altro tarpava le ali alla classe emergente, rubandole opportunità preziose” afferma Cox Richardson.

La visione progressista di Lincoln si tradusse in una serie di atti concreti, in grado di rinnovare l’identità degli Stati Uniti. Esempi eloquenti, oltre alla celebre Emancipation Proclamation del 1863, che sancì la liberazione degli schiavi, furono l’Homestead Act (1862), primo di una serie di provvedimenti che prevedevano la concessione della proprietà di terre incolte (anche agli ex schiavi), e ancora la creazione di un sistema di istruzione pubblico e l’introduzione della prima imposta sul reddito della storia americana. Roba da far rabbrividire i Republicans del terzo millennio.

Eterno duello. La forza innovatrice alla base della nascita del GOP, però, dovette fare i conti anche con un’altra corrente, che prese piede già alla fine dell’Ottocento. Subito dopo la tragica morte di Lincoln, una parte dei repubblicani si avvicinò infatti agli interessi della rampante classe industriale del nord, uscita vittoriosa dalla guerra di secessione, la quale vedeva nelle politiche di ricostruzione attuate nel sud un pericoloso tentativo di trasferire la ricchezza attraverso le tasse governative.

Da allora, la fazione conservatrice inaugurò una retorica fondata sull’esaltazione dell’individualismo sfrenato e sul rifiuto di qualsiasi ruolo attivo del governo nella regolamentazione del business. Le emanazioni di tale retorica, tra l’altro, sono visibili ancora oggi. Fino alla metà del XX secolo, tuttavia, la partita era aperta e senza esclusione di colpi. In particolare, a riportare con forza il partito al suo originario progetto progressista fu Theodor Roosevelt, in carica dal 1901 al 1909, e iniziatore di quella che gli americani chiamano Progressive Era.

All’indomani della terribile crisi economica del 1893, Roosevelt si scagliò contro le grandi corporation attraverso il frequente utilizzo della legge antitrust, introducendo al contempo norme sulla sicurezza alimentare e sulla protezione dell’ambiente e dei beni monumentali (a lui si deve la creazione del corpo forestale). L’energico Theodore, famoso per il suo piglio autoritario e la sua indole avventurosa, non ebbe vita facile nel partito, tanto da fondare egli stesso una nuova formazione politica progressista (il Bull Moose Party), con l’obiettivo manifesto di “dissolvere l’empia alleanza tra il business corrotto e la politica corrotta”.

Esaurita l’epopea riformista di inizio Novecento, la corrente conservatrice dominò di nuovo la scena creando le premesse per la grande depressione del 1929, opponendosi poi al New Deal del presidente democratico Franklin Delano Roosevelt. Ironie della storia, i due grandi partiti americani si erano scambiati i ruoli, e i democratici, un tempo ostili alle ingerenze governative, avviavano ora un colossale programma di investimenti pubblici per uscire dalla crisi.

Ciò nonostante, il repubblicanesimo degli albori non era ancora morto. A dargli nuova linfa fu Dwight Eisenhower (il cui mandato durò dal 1953 al 1961), considerato da molti uno dei migliori presidenti dell’intera storia degli Stati Uniti. Ammiratore del New Deal, Eisenhower portò avanti iniziative economiche nel solco della tradizione “interventista” del suo partito con uno dei più massicci programmi di opere pubbliche mai visto, cioè la costruzione del sistema autostradale interstatale (il cosiddetto Interstate Highway System). Come se nono bastasse, ampliò il welfare state e lottò per garantire uguaglianza e pari opportunità alla comunità afroamericana, allora ancora fortemente discriminata negli stati del sud. Definito un “repubblicano moderato”, quando si trattò di diritti civili Ike (questo il suo soprannome) sfoderò grande coraggio, garantendo il diritto di voto ai neri con il Civil Rights Act del 1957 e scomodando nello stesso anno l’esercito per garantire l’ingresso degli studenti afroamericani nel liceo di Little Rock, Arkansas. Per compiere quest’ultimo gesto non vinse solo le resistenze di una parte del GOP, ma diede uno memorabile schiaffo simbolico a Orval Faubus, democratico “all’antica” e governatore dello stato in questione.

Strategia divisiva. Ma anche il tempo del “moderato” Eisenhower era destinato a passare. Mentre i Kennedy ammaliavano gli States con i loro ideali progressisti, la fazione più reazionaria del GOP prendeva di nuovo il sopravvento, creando lo stereotipo dei repubblicani incarnato ai giorni nostri dai candidati alle primarie. “La discesa iniziò nel 1968, quando per vincere le elezioni il team di Richard Nixon sacrificò la difesa dei diritti dei neri per cementare il consenso degli elettori bianchi conservatori, ancorandoli alla corrente dei repubblicani intransigenti”, afferma la storica. “I conservatori, sapendo che in fondo la maggioranza degli americani era favorevole al welfare e alla regolamentazione del business, adottarono poi una strategia divisiva, facendo leva sulla presunta difesa dei valori cristiani e capitalisti e dipingendo i Liberals come dei falsi americani o addirittura dei simpatizzanti comunisti”. In breve, qualsiasi atto in difesa delle pari opportunità veniva additato come estraneo ai pilastri religiosi e individualisti a stelle e strisce. Le nuove ricette economiche teorizzate dal senatore Barry Goldwater e portate avanti dal carismatico Ronald Reagan (che originarono l’odierno strapotere della finanza) fecero il resto, spaccando a metà l’America.

Negli ultimi decenni sembra infine che gli ultraconservatori abbiano oscurato completamente alcuni dei principii fondativi del loro stesso partito, che poi coincidono in pieno con un pezzo importante del DNA degli Stati Uniti. Solo il tempo saprà dirci se c’è ancora spazio per i “vecchi repubblicani”, autentici eredi di giganti come Lincoln, Roosevelt e Eisenhower.

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Massimo Manzo

Massimo Manzo

Di madre americana e padre siculo, nasco tra le bellezze della Sicilia greca e gli echi del sogno americano. Innamorato della Storia, che respiro fin da bambino, trasferisco me e la mia passione a Roma. Qui, folgorato lungo la via, mi converto al giornalismo storico e di analisi geopolitica, “tradendo” così la laurea in legge nel frattempo conseguita. Appassionato di viaggi archeologici, oltre che della musica dei Beatles e dei campi da tennis, collaboro come giornalista freelance con più riviste di divulgazione, tra cui InStoria e Focus. Oggi mi divido tra la natia Sicilia e la città eterna, sempre coltivando l’amore per gli States.

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