I nodi europei sono decisamente al pettine – così almeno a impiegare l’elegante modo di dire italiano. Il più brutale mondo anglosassone esprime lo stesso concetto riferendosi all’effetto meccanico del contatto tra la merda e l’elica di un ventilatore.
Comunque sia, dopo la “stabilizzazione” della Grecia – dal punto di vista di Bruxelles – un altro stato membro pare sul punto di ribellarsi. Come abbiamo anticipato un paio di settimane fa, la situazione in Portogallo sì è fatta tesa. La “triplice alleanza” di sinistra che ha vinto le ultime elezioni in maniera convincente (con il 50,7% dei voti) non ha esitato a mandare a picco dopo pochi giorni il governo conservatore minoritario imposto forzosamente dal Presidente Aníbal Cavaco Silva.
I nuovi hanno un mandato esplicito dal popolo portoghese, che gli chiederà di onorare un paio di promesse elettorali molto chiare: di abbandonare l’euro per tornare all’escudo e di rispedire al mittente Ue l’austerity degli ultimi anni.
Non è che vada molto meglio in Inghilterra, dove né destra né sinistra paiono disposte a spendersi più di tanto per la causa dell’unità europea – checché ne pensino e dicano – mentre incombe un referendum nazionale sul tema dall’esito quantomai incerto.
Il problema lì è che gli elettori – “the people” – hanno davanti due grandi dati di fatto difficilmente controvertibili: che preferire la sterlina all’euro sia stata un’ottima idea e che ignorare bellamente i “consigli” economici in arrivo da Bruxelles ha lasciato il Regno Unito con l’economia più sana del continente. Sul piano più emotivo, anche le immagini delle migliaia di migranti ammassati a Calais in attesa di invadere Albione dànno da pensare. Oltre al semplice e comprensibile allarme che la situazione genera, è un esempio vivente – quasi quotidianamente sui giornali – dell’incapacità dell’Unione Europea di affrontare le crisi che vadano oltre l’ordinaria amministrazione.
Tutto ciò pone un problema interessante per gli entusiasti di Bruxelles che credevano di essere assurti al governo di un intero continente. Gli imperi – e la componente “imperiale” nel concetto dell’Unione “sempre più stretta” è innegabile – non possono tollerare che le province se ne vadano per conto proprio. Come minimo – la Grecia insegna – devono pagare il prezzo più alto possibile se ci provano.
Poniamo che ai portoghesi liberatisi dalla tutela europea andasse benone. Forse non è probabile, ma è possibile. Sarebbe un disastro per i più accesi unionisti, una cosa massicciamente diseducativa, da combattere con ogni mezzo possibile – tutto nel nome dell’unità europea e la maggiore felicità continentale, nel nome cioè di un ideale superiore ai voleri di una massa di confusi lusitani. In altre parole, la tentazione di condurre una guerra economica almeno sotterranea al Portogallo – di fargliela pagare per il bene generale e per ostacolarne il successo – sarebbe pressoché irresistibile.
Però, e non è un però da poco, il tutto alla vista degli inglesi? Proprio mentre si preparano a esprimere un giudizio dal sapore “universale” sull’operato e le prospettive dell’Unione Europea? Proprio mentre la Germania comincia a preoccuparsi seriamente del suo eccessivo isolamento alla guida dell’Unione ed è capace di cercare una “pace separata” con l’Inghilterra?
Dicono che Juncker una goccia di cognac ogni tanto la prende volentieri. Non c’è da restarne sorpresi.