Come si diceva, un tempo? Che quella italiana è la Costituzione più bella del mondo. Sarà per questo che l’hanno cambiata, a colpi di maggioranza e non con una “costituente”, quando è stata varata? Ad ogni modo più che “bella” (e davvero non si saprebbe dire se lo sia), la Costituzione italiana appare “buona”: se la sono spolpata ben bene, fin dal primo giorno. Ci si può rifare, per confortare questa affermazione, a una osservazione disincantata di Leonardo Sciascia contenuta in un’intervista televisiva rilasciata nel 1978. “Lo Stato”, secondo Sciascia, “per me è la Costituzione; e la Costituzione non esiste più. Non esiste più nel senso tecnico, anche. Ho sempre pensato che la Costituzione si fosse dissolta, ma proprio in questi giorni ho letto un libro scritto da un tecnico e pubblicato da una casa editrice tecnica purtroppo, perché questo è un libro che bisognerebbe che tutti gli italiani lo leggessero: “La Costituzione di carta”, di Mariano D’Antonio, pubblicato da Giuffré: una casa editrice specializzata in pubblicazioni giuridiche, in cui tecnicamente viene detto che la Costituzione della Repubblica italiana praticamente non esiste più. Secondo la tesi centrale di questo giurista la Costituzione si è dissolta, perché siamo entrati in una fase pre-Montesquieu: i tre poteri che dovrebbero restare indipendenti, si sono riunificati nella partitocrazia. Praticamente i partiti fanno le leggi, le fanno eseguire, le fanno giudicare. Quando c’è questo, la democrazia non c’è più”. E se valeva trenta e più anni fa, figuriamoci oggi…
E noi, la Repubblica, questo Stato che siamo (anche se non vogliamo)? Siamo alla terza Repubblica, come molti dicono? Magari no: dopo la Repubblica primo tempo, e la Repubblica secondo tempo, siamo, semmai, al terzo, di tempo. Nel senso che non c’è una sostanziale frattura, c’è anzi una continuità: una staffetta dove l’uno passa il testimone all’altro. Festa della Repubblica, il due giugno? Ma no, semmai è la Festa alla Repubblica.
In queste ore è un diluvio di dichiarazioni relative alle appena passate elezioni amministrative; che essendo amministrative devono servire per eleggere un sindaco, un presidente della Regione. Cosa si vuole da un sindaco? Che sappia amministrare bene il suo Comune, sappia far quadrare i conti, renda conto dell’avuto e di come l’ha trasformato in servizi. Se va bene lo si conferma, se non convince, avanti un altro. Stessa cosa per chi governa una Regione: cosa hai fatto, come l’hai fatto, come lo vuoi fare. Ti giudico, ti voto, non ti voto. Così in un paese normale. Ma essere normali è qualcosa di straordinario, eccezionale, evidentemente; e dunque, va bene, anche quando si deve eleggere l’amministratore del condominio, diamo a ogni consultazione un significato politico. E’ sempre stato così, chi siamo noi per venir meno a una tradizione? Tuttavia quello che maggiormente sconcerta è la banalità dei commenti, delle cosiddette “riflessioni”. Tutto secondo un copione che è scontato, logoro, persino irritante; non tanto da parte dei politici: cosa volete che dicano? “Non abbiamo vinto, ma non abbiamo perso”; “abbiamo perso, ma la responsabilità e le cause sono a monte”; “il risultato è frutto di campagne ben orchestrate da ‘entità’ non controllabili”…
I “nuovi”, si chiamino Lorenzo Guerini o Debora Serracchiani, o siano quasi “nuovi” come Paolo Romani e Maurizio Lupi, o “vecchi”, come Pierluigi Bersani e Silvio Berlusconi, alla fine della fiera, si esibiscono nella stessa canzone. E’ il mestiere loro, lo fanno come sanno, specchio di quello che sono.
Poi ci sono loro, i commentatori professionisti: li vediamo a schiera nelle trasmissioni di approfondimento politico, e vergano commenti inutilmente pensosi. Ce ne fosse uno – uno! – col gusto di dire una cosa appena diversa, non ovvia, scontata. Uno che per una volta dica che il re non è elegantemente vestito, ma che impettito come un tacchino se ne va a spasso nudo…
Fateci caso: per un momento, hanno preso atto che per la terza volta consecutiva ha vinto il partito del non vado a votare. Un fenomeno che non è di oggi: in occasione delle elezioni politiche del febbraio 2013, un primo segnale: un elettore su quattro diserta le urne. Nel 2014, in occasione delle elezioni europee, con buona pace di Matteo Renzi e del suo sbandierato 40 per cento di voti, alle urne si è presentato il 50 per cento dell’elettorato. Un partito che ormai ha due facce: una “tradizionale” anoressia elettorale, che si attesta sul 20 per cento del corpo elettorale, convinto, a torto o a ragione, che è inutile perdere tempo, “quelli” sono “Franza o Spagna, purché se magna”. C’è poi un astensionismo critico, di “opinione”: persone disilluse e amareggiate, figlie della fine del voto d’appartenenza, hanno messo in archivio le ideologie, e reagiscono in questo modo al sistematico tradimento delle promesse e delle aspettative di un ceto politico che ormai è capace di raccogliere appena il 9 per cento di fiducia, contro un buon 85 per cento di antipatizzanti.
Ci si sorprende, ci si stupisce del boom della Lega; anche in zone dove la Lega non dovrebbe far breccia. Uno stupore e una sorpresa, che ti fanno dire: ma ci sono o ci fanno? Per mesi, è documentabile, lo si tocca con mano: siamo stati letteralmente bombardati ovunque dal doppio Matteo: quello di governo, ultima appendice della (s)partitocrazia, il Renzi, insomma; e l’altro, l’“avversario”, quello che nei polizieschi d’antan gioca al poliziotto cattivo. E ai margini del campo di gioco Beppe Grillo e i suoi, degli eterni “mister No”, che davanti a tutto, e sempre, scuotono la testa, e stanno fermi a guardare. Come denaro depositato in qualche fondo d’investimento, matura interesse, ma non produce ricchezza. Come si poteva pensare che il risultato fosse diverso da quello che è stato? Quel risultato si voleva conseguire e si è raggiunto. Renzi, che viene dato per sconfitto perché non ha stravinto, un risultato comunque lo consegue: governa fino al 2018, e come oppositori ha i “truci” Salvini e Grillo. Berlusconi e il resto del centro-destra ansimano, c’è poco da fare, non reggono il passo, non foss’altro che per questioni anagrafiche; e gli avversari di Renzi all’interno del PD: ma davvero si può credere che i Massimo D’Alema e i Pierluigi Bersani possano costituire una credibile alternativa? Come annota un osservatore mai banale, il sociologo Luca Ricolfi, dopo il “ventennio” del primo Cavaliere, il “ventennio” del secondo Cavaliere, ci si avvia ora al possibile “ventennio” di Renzi. Il resto, forse si è eccessivamente liquidatori, ci pare fuffa, pio-pio, bla-bla.
L’elemento che sommessamente si vorrebbe piuttosto sottolineare è che ancora una volta queste elezioni si sono svolte in una situazione di palese, palpabile, documentabile illegalità. Questo Stato ha una caratteristica costante: viola con protervia e sistematicità la sua stessa legge, il suo stesso diritto. E’ questo Stato, come si è conformato e si manifesta, che viola per primo la sua stessa legge, e che dà ai cittadini il cattivo esempio; e un cittadino normale ne ha puntuale e documentabile riscontro ogni giorno. Uno Stato, una Repubblica che tradisce la sua legge, che tratta i suoi cittadini da sudditi, ne calpesta i diritti come lo possiamo, come lo dobbiamo definire? Va bene, diciamolo a costo di fare un piccolo scandalo: è uno Stato “canaglia”. Del resto: siamo o no sistematicamente condannati dalle giurisdizioni nazionali e internazionali? Sì, che lo siamo: per lo stato comatoso della giustizia, per come sfregiamo l’ambiente, per l’oppressione fiscale…
Mettiamole tutte insieme queste condanne, e se ne ricava un quadro desolante, e nulla fa pensare che le cose muteranno in tempo breve. Scienziati del diritto, giuristi, assai più di quanto sa e può fare chi scrive, possono documentare come l’Italia, da tutti i punti di vista sia individuata e individuabile, anche nei minimi dettagli, con comportamenti perfettamente antidemocratici. Con buona pace di chi può ritenerla affermazione “forte” ed eccessiva, appunto, da “Stato canaglia”. Quella italiana, con rispetto (e dolore) è una Repubblica tecnicamente “canaglia”. Su questo converrebbe discutere, riflettere, ragionare. Che non lo si faccia, che non accada, suona come conferma, non come smentita.