*Questo articolo è stato anche pubblicato dalla rivista italiana di geopolitica Limes, attualmente in edicola e libreria con un numero interamente dedicato agli Stati Uniti. Si tratta dell'introduzione al libro di Manlio Graziano dal titolo In Rome We Trust. L'ascesa dei cattolici nella politica americana, che sarà pubblicato da Il Mulino in Italia e da Stanford University Press negli Stati Uniti.
Cinquantacinque anni fa, un candidato cattolico alla presidenza degli Stati Uniti fu costretto a dichiarare pubblicamente che mai avrebbe ricevuto ordini dal papa; oggi, i vertici politici degli Stati Uniti sono pieni di cattolici, e nessuno sembra neppure accorgersene. Cent’anni fa, la libertà di coscienza rappresentava per la Chiesa cattolica il male assoluto; oggi, la vita, la libertà, e la ricerca della felicità sembrano essere diventate il suo nuovo mantra.
Apparentemente, non c’è nulla degno di nota: il tempo ha fatto giustizia di vecchi tabù. In realtà, c’è qualcosa di più: gli Stati Uniti sono sempre più cattolici, e la Chiesa è sempre più americana. I due “imperi paralleli” di cui ha scritto Massimo Franco sono dunque destinati a convergere?
Si tratterebbe piuttosto, nella migliore delle ipotesi, di una nuova versione delle celebri “convergenze parallele” (1). Il bisecolare rapporto tra Stati Uniti e Chiesa cattolica è stato infatti essenzialmente caratterizzato da reciproci sospetti e da aperta ostilità, e, dopo la fine della Prima Guerra mondiale, da un’aspra concorrenza sul terreno della leadership morale del mondo. La Chiesa e gli Stati Uniti sono entrambi convinti di incarnare un manifest destiny voluto da Dio; ma non è lo stesso Dio, ed è di sicuro un destino diverso.
Gli Stati Uniti sono nati come paese puritano, e quindi apertamente anti-cattolico. Tuttavia, fin dai primi anni della loro esistenza, una delle preoccupazioni principali dei padri fondatori fu di non importare dal vecchio mondo le guerre e le persecuzioni religiose a cui si erano sottratti i passeggeri del Mayflower. L’eredità più duratura di quella preoccupazione è il primo emendamento della Costituzione, ratificato nel 1791, che vieta ogni tipo di commistione tra politica e religione.
Ma i sentimenti anticattolici esistevano molto prima della nascita degli Stati Uniti e della loro Costituzione. La prima legge che bandiva i cattolici dalle cariche pubbliche, ne vietava il culto e perseguitava i loro sacerdoti fu approvata nel 1642 in Virginia, e poi estesa ad altre colonie. Nel corso dell’Ottocento, e malgrado il primo emendamento, quell’ostilità conobbe momenti di aspra violenza, tra risse, aggressioni, distruzione di edifici di culto, fino alla creazione di chiassosi movimenti di un certo successo. Il cuore WASP della nazione americana era talmente imbevuto di quell’ostilità che, perfino durante la Seconda Guerra mondiale, e poi di nuovo durante la campagna presidenziale del 1960, furono diffusi opuscoli e caricature in cui i cattolici erano rappresentati come la potenziale quinta colonna di un papa smanioso di prendere il controllo degli Stati Uniti. Ancora nel 1984, la decisione di Ronald Reagan di stabilire relazioni diplomatiche con la Santa Sede incontrò una vivace e rumorosa opposizione.
Da parte sua, la Chiesa non era meno ostile agli Stati Uniti, la cui crescita territoriale avvenne a scapito di potenze cattoliche – Francia, Spagna e Messico – con un tentativo, seppur fallito, di conquistare anche il Quebec a maggioranza cattolico. Perdipiù, i valori scolpiti nella Costituzione americana, a cominciare dalla libertà di coscienza, erano inconciliabilmente opposti a quelli difesi e propagati dalla Chiesa per secoli. Alla fine dell’Ottocento, Leone XIII condannò ufficialmente la tendenza assimilazionista di molti vescovi americani, cioè la loro tendenza ad assorbire alcuni valori americani quali il pluralismo religioso o il principio della separazione tra Chiesa e Stato.
La posizione della Chiesa universale entrò molto spesso in conflitto con le politiche americane, interne e internazionali: sulla questione della schiavitù; sulla guerra civile; sull’attivismo sindacale; sulla guerra contro la Spagna nel 1898; e sulla rivoluzione messicana. Come per molti altri paesi, il punto di svolta fu la Prima Guerra mondiale, quando la gerarchia locale fece prova di patriottismo incondizionato non appena gli Stati Uniti ebbero dichiarato guerra alla Germania (ma al prezzo di un raffreddamento dei rapporti con Roma). Quel riallineamento non impedì tuttavia alla Chiesa di difendere gelosamente la propria autonomia nel corso degli anni successivi, prendendo di nuovo chiaramente le distanze da Washington in numerose occasioni. Come durante la guerra di Spagna, quando boicottò ogni tentativo di mediazione abbozzato da Roosevelt. O durante la Seconda Guerra mondiale, quando contestò vivacemente l’alleanza con l’URSS. Negli anni successivi a quel conflitto, e nonostante il comune nemico nella guerra fredda, Pio XII non rinunciò a criticare l’American way of life, considerata spesso più “materialista” della Soviet way of life. Le loro posizioni divergerono ancora sulla guerra del Vietnam, sulla Ostpolitik vaticana, sulla corsa agli armamenti e, naturalmente, sulle guerre del Golfo del 1991 e del 2003.
Insomma, gli Stati Uniti e la Santa Sede si sono trovati molto raramente a percorrere la stessa strada; e quando hanno condiviso gli stessi nemici, la lotta contro di essi non perseguiva gli stessi scopi. Ancora oggi, per quanto riguarda la Palestina, l’Europa e l’America Latina, la Cina, l’Estremo Oriente, il subcontinente indiano, la Russia e l’Africa, le strategie e le finalità della Chiesa cattolica e degli Stati Uniti sono profondamente diverse. Inoltre, le loro opinioni divergono su alcuni scottanti temi di politica interna americana, come l’immigrazione, l’istruzione, la pena di morte, il controllo delle armi, l’aborto, la contraccezione, la ricerca sulle cellule staminali, etc.
Nonostante tutti questi disaccordi, sembra che gli americani stiano influenzando sempre più la Chiesa cattolica, e che i cattolici stiano influenzando sempre più la politica americana.
Anche se i cattolici hanno cominciato a svolgere un ruolo di peso all’epoca di Ronald Reagan, la tendenza alla loro sovrarappresentazione in seno alla classe politica americana è diventata patente durante l’era Obama. Non solo per la nomina del sesto giudice cattolico alla Corte Suprema (su nove) (2), ma anche perché almeno la metà dei membri della sua amministrazione sono cattolici, mentre sull’insieme della popolazione americana solo una persona su quattro (o tre) è cattolica (3). Sono cattolici anche il vice-presidente, lo chief of staff della Casa Bianca, entrambi i consiglieri alla sicurezza interna nominati dall’inizio del mandato di Obama, entrambi i presidenti della Camera dei rappresentanti (democratico 2008-2012, e repubblicano dal 2013), il leader democratico della Camera, il direttore della CIA, il direttore e il vicedirettore dell’FBI, entrambi i capi di stato maggiore nominati da Obama, il comandante dei marines, il capo di stato maggiore dell’aviazione e l’ex-consigliere alla sicurezza nazionale (2010-2013). Inoltre, sono cattolici il 31% dei membri del Congresso e il 38% dei governatori.
L’eventualità che il prossimo presidente degli Stati Uniti possa essere cattolico comincia ad essere presa in considerazione, soprattutto in caso di vittoria repubblicana. La cosa ci sembra improbabile perché, dal punto di vista della Chiesa, un presidente cattolico sarebbe un successo di immagine per qualche settimana e una serie di grane per quattro anni. Tuttavia, non possiamo semplicemente escluderla, se non altro perché molti potenziali candidati cattolici si aggirano intorno agli starting block. Agli inizi del 2015, circa la metà dei potenziali candidati citati più spesso per il 2016 erano cattolici: Jeb Bush, Marco Rubio, Chris Christie, Paul Ryan, Bobby Jindal e Rick Santorum (a cui si dovrebbe aggiungere John Boehner) sul fronte repubblicano; e, tra i democratici, oltre a Joe Biden, le voci riguardavano Joe Manchin, Martin O’Malley, Brian Schweitzer, Wesley Clark e Andrew Cuomo (a cui si potrebbero aggiungere Julian Castro e Denis McDonough).
Già nel 2004, un candidato alla presidenza era cattolico, e nelle ultime due presidenziali, lo erano entrambi i candidati alla vicepresidenza (dal punto di vista della Chiesa, essendo battezzata, Sarah Palin è cattolica). Le convenzioni dei due partiti nel 2012 sono state aperte dai discorsi di due cattolici – Rubio e Castro – e chiuse dalla preghiera guidata dall’allora presidente della Conferenza episcopale, l’arcivescovo di New York Timothy Dolan. Solo una volta, prima di allora, il presidente dei vescovi americani era stato invitato a entrambe le convenzioni: nel 1972, al momento della prima presidenziale in cui il voto cattolico si era massicciamente spostato verso i repubblicani.
Parlando di spostamenti, possiamo concludere questa panoramica con alcune conversioni di spicco al cattolicesimo di personaggi appartenenti ai due partiti: Jeb Bush, Newt Gingrich, i governatori della Louisiana Bobby Jindal e del Kansas Sam Brownback, il sindaco di Nashville Karl Dean, il deputato del Michigan Hansen H. Clarke, fino al generale Wesley Clark. Per un po’ era circolata la voce secondo cui anche George W. Bush sarebbe stato tentato di seguire le orme di suo fratello e del suo ex alleato Tony Blair.
Sorprendentemente, questa sovrabbondanza di cattolici nelle zone alte della politica americana è passata quasi inosservata. L’unico caso su cui vi sia stato dibattito è quello della Corte suprema. In quel dibattito, sono state avanzate statistiche che mostrano come, in tutta la storia della Corte, ci siano stati solo tredici giudici cattolici e, di questi tredici, sei siedano simultaneamente oggi. Vista l’importanza politica cruciale della Corte suprema, il dibattito è più che comprensibile. Ma, siccome gli osservatori hanno notato la presenza dominante dei cattolici nella Corte suprema senza notare la presenza dominante dei cattolici in altre importanti istituzioni americane, quel dibattito si presenta come il proverbiale albero che nasconde la foresta.
Qualcuno potrebbe sostenere che la presenza di tutti quei cattolici ai vertici della politica americana sia solo una coincidenza. Ma, come avrebbe detto Agatha Christie, una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze sono un indizio, e tre coincidenze sono una prova. In questo caso, dunque, avremmo una prova. Ma una prova di che?
Prima di tutto, la prova che questa tendenza è reale, e che merita almeno di essere riconosciuta. Anche se fosse solo una peculiarità dell’era Obama, e anche se si concludesse con la fine del suo mandato, meriterebbe un tentativo di spiegazione, che potrebbe tra l’altro essere utile per una migliore comprensione della sua presidenza. Ma cominciamo con alcune ipotesi sulle cause della sovrarappresentazione dei cattolici nella vita politica americana.
La prima potrebbe essere il disorientamento. Disorientamento e incertezza sono le principali caratteristiche della lunga fase di post-guerra fredda. Dopo la caduta del muro di Berlino, la storia ha cominciato a correre, ed è diventato molto difficile per tutti – Stati, governi, intellettuali e gente comune – tenere il passo. Questo è particolarmente vero per gli Stati Uniti e per gli americani, la cui ricchezza e la cui leadership mondiale erano fino a poco tempo fa non solo dati per scontati, ma anche considerati come sempiterni. Nell’ultimo decennio del Novecento, agli americani fu detto che avevano vinto la storica battaglia contro l’“impero del male”, che il loro sistema economico aveva trionfato su tutti i fronti, che il loro paese era l’unica superpotenza rimasta. All’inizio del nuovo secolo, la peggiore forma del male si è abbattuta sul loro suolo, il loro sistema economico è stato violentemente scosso da una profonda crisi, e una moltitudine di nuove e vecchie superpotenze ha cominciato a contestare nei fatti la loro leadership mondiale. Dall’inizio del nuovo secolo, il sentimento dominante negli Stati Uniti è passato da un ottimismo soddisfatto ad un cupo senso d’inquietudine.
I problemi evidenziatisi nei primi anni del nuovo secolo non sono semplici battute d’arresto temporanee. Sono i primi segni tangibili dell’inizio di una nuova era, in cui gli Stati Uniti sono destinati a perdere progressivamente la loro leadership mondiale esclusiva. Anche se la loro eccellenza permane in alcuni settori chiave – come la ricerca e sviluppo, l’istruzione, la libertà di discussione, le armi, l’energia e l’immigrazione – è innegabile che l’economia di molti concorrenti degli Stati Uniti stia crescendo più rapidamente; il che significa che la quota americana del mercato globale si va restringendo.
Il relativo declino dell’economia americana è la caratteristica principale della nuova era, e ha pesanti conseguenze geopolitiche. Nel suo celebre The Rise and Fall of the Great Powers (1987), Paul Kennedy trae una «valida conclusione» dalla sua analisi circa le cause storiche del declino delle grandi potenze: «Vi è una relazione osservabile tra i mutamenti che sono occorsi nel tempo negli equilibri economici e produttivi generali e la posizione occupata dalle singole potenze nel sistema internazionale». Altrove nel suo libro, Kennedy afferma che l’«ineluttabile conseguenza» dello sviluppo ineguale è uno shift of power, cioè un mutamento dei rapporti di forza tra le grandi potenze. Per gli Stati Uniti, ogni shift of power significa – ineluttabilmente – che la sua leadership globale si sta indebolendo; e se la sua leadership globale si indebolisce, molti dei benefici che sono venuti con essa sono destinati a svanire.
Più di venticinque anni dopo il libro di Kennedy, Robert J. Samuelson ha scritto che l’economia degli Stati Uniti dovrà fare i conti con una «nuova norma economica», caratterizzata da una prolungata crescita lenta, «che minaccia di sconvolgere il nostro ordine politico e sociale». Il rischio di minare l’ordine politico e sociale è presente in tutti i paesi che, in passato, hanno tratto ogni possibile vantaggio materiale dalla loro posizione privilegiata nel mondo. È ancora maggiore per gli Stati Uniti, la cui breve storia è l’unica quasi interamente caratterizzata da una crescita sostenuta e dall’aspettativa di un miglioramento continuo. Paradossalmente, l’eccezione più importante – la Grande Depressione – ha anch’essa contribuito a questo sentimento: infatti, dopo essere usciti da quella crisi, gli americani hanno conosciuto i decenni più prosperi della loro storia, traendone la (ovviamente sbagliata) conclusione che ogni crisi, anche la più profonda, non poteva essere che momentanea.
Negli Stati Uniti, si è creata nel corso dei secoli una panoplia di filosofie ottimistiche per incoraggiare, alimentare o semplicemente descrivere l’ascesa e i successi del paese; ma gli Stati Uniti sono filosoficamente sguarniti di fronte al loro declino. È quindi comprensibile che si manifesti l’esigenza di più solidi di punti riferimento. Nell’attuale situazione internazionale, i punti di riferimento tradizionali stanno perdendo la loro sostanza ideale e materiale, e quindi la loro efficacia politica. Ovunque nel mondo, le religioni tradizionali stanno riempiendo alcuni dei vuoti lasciati dagli Stati e dalle loro ideologie secolari. Questo è il motivo per cui molti paesi – e non solo gli Stati Uniti – sono alla ricerca di nuovi e più solidi punti di riferimento: non necessariamente allo scopo di sostituire le loro religioni civili, ma almeno per irrobustirle con contenuti più sperimentati e più popolari.
La Chiesa cattolica è la più antica e la più rispettata istituzione nel mondo, oltre ad essere – piaccia o meno – il più autorevole, e il più flessibile, fornitore di principi morali; qualsiasi legame con il cattolicesimo può quindi contribuire a consolidare i punti di riferimento di una nazione. Se questa è la ragione principale della sovrarappresentazione dei cattolici ai vertici degli Stati Uniti, allora è molto probabile che quella tendenza prosegua, anche se non necessariamente nelle stesse proporzioni dei due mandati di Barack Obama. Una possibile drastica diminuzione del numero di cattolici al vertice del potere degli Stati Uniti sotto il prossimo presidente potrebbe dimostrare che l’era Obama è stata particolarmente povera in termini di idee, motivazioni e progetti “interni” – in una parola: di punti di riferimento – e che, quindi, aveva particolarmente bisogno di agganciarsi a idee, motivazioni e progetti “esterni”.
Un’altra spiegazione potrebbe essere che il cattolico americano medio gode oggi di una posizione sociale superiore a quella dell’americano medio. Nel 1924, un famoso teologo, John Ryan, lamentava l’assenza di una leadership politica cattolica negli Stati Uniti (il fatto che quello stesso anno il governatore dello Stato di New York, Al Smith, avesse cercato di diventare il primo candidato cattolico alla presidenza era l’eccezione alla regola). Negli anni Venti, gran parte dei cattolici si trovava ancora negli strati più bassi del proletariato, e, d’altro canto, la Chiesa non era affatto incline all’idea di promuovere un laicato colto, maturo, indipendente, e capace di giudicare da sé. A quell’epoca, l’unico campo in cui i laici cattolici esercitavano le loro capacità organizzative era quello sindacale (anche se bisognerà aspettare il 1940 perché un cattolico, Philip Murray, prenda la testa di un sindacato nazionale, il Congress of Industrial Organizations).
Dopo la Seconda Guerra mondiale, molti cattolici americani passarono dalla condizione di blue collar a quella di white collar, spostandosi in molti casi dalle città verso le periferie, in cui si mescolarono ai fedeli di altre confessioni. Questa promiscuità smussò certe asperità del loro cattolicesimo, e la loro ascesa sociale mutò il loro rapporto con il clero: tendevano ormai ad essere più istruiti e a partecipare più attivamente alla vita della parrocchia, coinvolti nella gestione delle sue attività. Negli anni Cinquanta, un testo di un altro teologo, John Courtney Murray, riconosceva che i cattolici erano ormai diventati una componente visibile della classe politica americana, anche se ancora leggermente sottorappresentata nel Congresso. Mezzo secolo più tardi, essi sono, come si è visto, una componente leggermente sovrarappresentata del Congresso.
La quasi esatta parità tra la percentuale di popolazione cattolica (25-30%) e la quota dei rappresentanti cattolici al Congresso (31%) è sorprendente se paragonata al peso molto maggiore dei cattolici nell’amministrazione, nella Corte Suprema, tra i governatori o nella leadership militare e di sicurezza. Questa differenza peculiare conduce ad un’altra osservazione: la sovrarappresentazione dei cattolici nel panorama politico americano (con la parziale eccezione dei governatorati) non è un fenomeno bottom-up, ma il contrario. Quasi tutti i ruoli in cui i cattolici sono sovrarappresentati sono coperti per cooptazione, non per elezione. In altri termini, si tratta di una precisa volontà del presidente, o dei suoi collaboratori più stretti: vuoi perché i cattolici hanno una formazione più solida di altri, vuoi perché sono legati a un’istituzione che è meglio avere al proprio fianco che contro, oppure per entrambe le ragioni.
Un ultimo aspetto da considerare quando si parla del ruolo dei cattolici nella politica americana è il fenomeno che Robert C. Christopher ha chiamato il «de-WASPing of America’s Power Elite», ovvero la progressiva perdita di peso politico delle tradizionali elite bianche protestanti di origine anglosassone (i cosiddetti WASP). In quel processo, altri gruppi non-WASP – in particolare gli ebrei – hanno indubbiamente svolto un ruolo importante: basta tornare all’esempio della Corte suprema, dove, dal momento del ritiro del protestante John Paul Stevens e la nomina di Elena Kagan, che è ebrea, per la prima volta nella storia di questa istituzione nessun giudice è un WASP.
Fin dai primi decenni dell’Ottocento, i cattolici hanno rappresentato la più larga denominazione religiosa negli Stati Uniti. Non è quindi sorprendente che molti osservatori colleghino il processo di “de-WASPing” essenzialmente al numero crescente di cattolici. Alcuni recenti studi affermano che, in un prossimo futuro, gli Stati Uniti saranno sempre più cattolici a causa della massiccia immigrazione latinoamericana: è possibile, ma le ipotesi cifrate vanno prese con cautela non foss’altro perché meno di due terzi degli immigrati latinoamericani si considerano cattolici. Ma, quale che sia la sua dimensione reale, un aumento del numero di cattolici dovrebbe prima o poi avere ripercussioni sulla loro rilevanza politica: un candidato democratico o repubblicano che fosse in grado di portare la gran maggioranza dei cattolici in qualunque coalizione futura (come hanno fatto, in passato, Roosevelt e Reagan) accrescerebbe enormemente le proprie possibilità di imporsi in qualsiasi competizione elettorale.
Ma si tratta di pura speculazione. Nessuno dei due partiti sembra oggi in grado di costruire una tale coalizione, e in ogni caso è altamente improbabile che la Chiesa, per quanto sia in grado di orientare il voto dei suoi fedeli, sia disposta a mettere tutte le uova in un solo paniere. Dacché il Partito democratico ha cessato di essere un partito democristiano negli anni Sessanta, la Chiesa si comporta verso le due formazioni politiche principali del paese come un bambino nei confronti di genitori litigiosi: cerca di approfittare dei loro screzi per ottenere di più da entrambi.
Inoltre, occorre ricordare che l’emergere di una leadership politica tra i cattolici americani non è legata al numero di cattolici presenti nel paese. Ci sono voluti decenni prima che gli immigrati cattolici irlandesi e tedeschi, e poi italiani e polacchi, fossero in grado di trasformare la loro quantità numerica in qualità politica. Oggi, appaiono i primi segni di una futura leadership cattolica latinoamericana, ma ci vuole sempre tempo prima che la quantità di immigrati più recenti produca una nuova leadership politica.
I cattolici influenzano la politica americana molto più degli evangelici. Al di là del loro impatto numerico, vi è una ragione più semplice: la politica non può essere misurata in termini di decibel, ma in termini di organizzazione. Non è il più sgargiante, il più chiassoso, il più teatrale e neppure il più violento degli attori politici ad essere importante, ma quello che è in grado di raggiungere, o di influenzare, il potere. La Chiesa cattolica è una istituzione globale, con un’esperienza di gestione e di influenza del potere accumulata nei secoli; gli evangelici, al contrario, sono divisi in una miriade (secondo alcune fonti, più di 30.000) di Chiese, chiesucole e nano-chiese, con punti di vista diversi o addirittura opposti su temi politici, sociali, e talvolta teologici. Quando riescono ad unirsi dietro un certo obiettivo, possono certo spostare pacchetti anche consistenti di voti, ma non sono comunque in grado di avere un impatto durevole sul potere politico. In trent’anni di agitazione, non sono riusciti a raggiungere nessuno dei loro obiettivi fondamentali, che si tratti dell’aborto, della preghiera nelle scuole o del matrimonio omosessuale.
Agli occhi della Chiesa cattolica, la sopravvalutazione dell’evangelicalismo è una buona cosa. Anche se si è arresa di fronte alla necessità – tipica in una società di massa – di dotarsi di leader fortemente carismatici, capaci di accendere le passioni delle folle, non è attraverso questo approccio superficiale ed effimero che la Chiesa ha fondato il suo successo. Il suo successo si basa piuttosto su una comune identità fatta di precetti, riti e orizzonti etici comuni, e in particolare sulla rete di parrocchie, scuole, ospedali e missioni, tutti raccolti in una struttura organizzativa centralizzata, solida e disciplinata. Le sue strutture agiscono in profondità nelle pieghe della società; e più i riflettori sono rivolti altrove, meglio agiscono.
All’inizio di questo decennio, la Chiesa gestiva direttamente o indirettamente negli Stati Uniti più di 5.600 scuole elementari, 1.200 scuole medie e superiori e 244 università e college, per un totale di circa 3,5 milioni di studenti e più di 200.000 insegnanti e professori. Nel sistema sanitario, controllava una rete di più di 600 ospedali, per non parlare delle case di cura, case di riposo, pensionati e molte altre istituzioni caritative.
La Chiesa è, in poche parole, la seconda rete di protezione sociale del paese dopo lo Stato federale. Nell’era della “nuova norma economica”, in cui gli americani dovranno imparare a convivere con tassi di crescita circa un terzo inferiori rispetto ai decenni prima della crisi del 2008, quella rete di servizi e l’esercito di volontari che le parrocchie sono in grado di mobilitare si stanno dimostrando estremamente preziosi, forse indispensabili.
Tuttavia, secondo l’opinione comune, tutto quel capitale sociale, così come la sovrarappresentazione dei cattolici nell’elite politica americana, sarebbero privi di significato, perché comunque la Chiesa cattolica starebbe vivendo una crisi profonda e probabilmente irreversibile. Viene detto con insistenza che il numero di sacerdoti, suore, seminaristi e praticanti è drammaticamente in calo; che il numero di matrimoni religiosi e di battesimi sta anch’esso rapidamente diminuendo; che le parrocchie stanno chiudendo e che molte chiese sono state trasformate in negozi, bar, magazzini, o addirittura in templi evangelici; e, infine, che lo scandalo dei preti pedofili ha definitivamente spazzato via la fiducia nell’istituzione.
Vi è un consenso sorprendentemente ampio attorno a queste tesi “decliniste”. Alcuni dei suoi nemici tradizionali (protestanti e anticlericali), come è ovvio, vi credono fermamente, o almeno, vi sperano. Tuttavia, i sostenitori più convinti di questa tesi si trovano tra gli stessi cattolici. Per i cattolici conservatori, questa presunta crisi sarebbe determinata da un eccesso di apertura influenze esterne, da un allentamento dei legami alla tradizione, in una parola, da una protestantizzazione della Chiesa. Per i progressisti, è vero esattamente il contrario: questa presunta crisi sarebbe determinata dall’incapacità di cogliere “i segni dei tempi”, dallo spreco di energie nel cercare di imporre norme morali obsolete che solo alcuni zelanti tradizionalisti rispettano o fingono di rispettare, e così via. Infine, le gerarchie, qualunque cosa pensino realmente sullo stato della Chiesa, sono perfettamente a loro agio con le testi “decliniste”: non solo perché incarnano alla perfezione la quasi pavloviana propensione cattolica alla vittimizzazione, ma soprattutto perché, come nel caso della sopravvalutazione degli evangelici, esse offrono un’ottima giustificazione alla loro tradizionale politica di basso profilo. E quanto più l’influenza della Chiesa aumento, tanto più il basso profilo si rende necessario.
Tutte le correnti interne al cattolicesimo possono brandire le tesi “decliniste” le une contro le altre perché molte prove utilizzate per dimostrarle sono indisputabilmente vere. Il fatto è che quelle prove, in realtà, non provano granché. Provano soltanto che la Chiesa cattolica non è più quella di una volta, e che il mondo non è più quello di una volta. Il che, in termini ermeneutici, è uguale a zero. Alcuni tendono meccanicamente a confrontare la situazione attuale della Chiesa con l’era della cristianità trionfante, quando la religione e la società erano legate da «osmosi e compenetrazione» (secondo le parole di René Rémond); ma il problema è, come Joseph Ratzinger stesso ha affermato, che «un’atmosfera cristiana diffusa non esiste più», ed è così da almeno due secoli (4). Altri confrontano la situazione attuale con quella esistente prima del Concilio Vaticano II: ma è un altro anacronismo, perché negli ultimi cinquant’anni la società è cambiata profondamente, e la Chiesa forse ancora più profondamente.
Il Concilio Vaticano II fu convocato proprio perché la Chiesa aveva grossi problemi nel riconoscere “i segni dei tempi”, e stava cercando di non perdere il contatto con una società non più permeata di religiosità. Cardinali, vescovi, sacerdoti e teologi discussero intensamente e talvolta aspramente per tre anni, e non appena il dibattito fu chiuso ed i documenti furono votati, una nuova intensa crisi esplose all’interno della Chiesa, forse la peggiore dopo la Riforma e la Rivoluzione francese. Ognuno aveva lasciato Roma con la propria idea di ciò che era stato deciso, e i tentennamenti di Paolo VI non aiutarono a capire meglio, anzi. In poche parole: la Chiesa aveva perso la sua unità di intenti, e per un certo periodo divenne una sorta di confederazione di piccole repubbliche cattoliche indipendenti, spesso formate da un singolo vescovo, o anche da un singolo sacerdote o un singolo teologo. Tra le conseguenze di quella crisi, per citarne una, circa 100.000 sacerdoti nel mondo (e forse un numero ancor maggiore di religiose) abbandonarono il loro stato tra il 1970 e il 2000, secondo Sandro Magister. I preti e le suore rimasti persero gran parte del loro prestigio sociale, il che comportò un rapido declino delle “vocazioni”. Dopo quello tsunami, insomma, invece di stupirsi che così tante chiese siano trasformate in discoteche e magazzini, ci si dovrebbe stupire del fatto che la maggior parte di esse stiano ancora funzionando.
E si dovrebbe essere ancora più stupiti dal fatto che la maggior parte di esse stanno funzionando molto bene. L’ascesa sociale dei fedeli cattolici in corso dalla fine della Seconda Guerra mondiale e gli sconvolgimenti sociali e culturali degli anni Sessanta e Settanta hanno trasformato radicalmente il rapporto tra la Chiesa e il suo gregge. Quando Giovanni Paolo II e Joseph Ratzinger ebbero spazzato via «i detriti della confusione post-Vaticano II» (Deal Hudson), e la Chiesa ebbe così recuperato la propria unità di intenti e la propria identità, i sacerdoti, le suore, le parrocchie, i praticanti e così via erano certamente meno di quanti non fossero agli inizi degli anni Sessanta; ma, allo stesso tempo, coloro che continuavano ad esercitare la loro missione erano molto più motivati e coloro che continuavano ad andare in chiesa lo facevano non perché era un dovere sociale, o perché tutti gli altri lo facevano, ma perché sceglievano di farlo. Di conseguenza, erano molto più coinvolti nella vita delle parrocchie: dagli inizi degli anni Settanta, il reclutamento di diaconi permanenti crebbe a un ritmo eccezionale, al punto che, oggi, i due terzi di tutti i diaconi permanenti nel mondo sono americani. Vale la pena di notare che anche negli anni più intensi dello scandalo della pedofilia, tra il 1995 e il 2005, il loro numero aumentò del 50%. Oltre ai diaconi permanenti, i laici in molte parrocchie cominciarono ad occupare – spesso come volontari benevoli – posizioni direttive, in qualità di liturgisti, catechisti, commercialisti, organizzatori di comunità, oltre che volontari in associazioni di beneficenza e di servizi sociali. In una serie di parrocchie americane esaminate dallo storico Charles Morris nel 1990, tra un quinto e un terzo dei parrocchiani erano attivamente impegnati in una o più attività.
Questo non significa, naturalmente, che la Chiesa non sia più interessata a reclutare nuovi sacerdoti, o che sia disposta a considerare sullo stesso piano i preti e il laicato attivo, o anche i diaconi permanenti. Ma anche dopo la crisi post-conciliare, la situazione appare tutt’altro che disperata. L’unico paese al mondo in cui vi siano più sacerdoti che negli Stati Uniti è l’Italia: circa 50.000 contro 45.000 a metà del primo decennio del nuovo secolo. Gli Stati Uniti sono la patria di circa il 7% di tutti i cattolici del mondo e del 12,5% di tutti i sacerdoti. Il rapporto tra preti e popolazione negli Stati Uniti è più basso che in Europa, ma superiore all’insieme del continente americano, più di quattro volte di quello dell’Africa, e più di otto volte di quello dell’Asia. Il rischio di “desertificazione” delle parrocchie è ancora remoto.
Secondo alcuni osservatori, l’elezione di un papa “americano” avrebbe contribuito a galvanizzare la comunità cattolica statunitense. È troppo presto, a nostro avviso, per distinguere con nettezza l’effetto superficiale del carisma personale di Jorge Mario Bergoglio da eventuali effetti più solidi e duraturi. Si può però dire che, con papa Francesco, la Chiesa americana abbia quasi completato il lungo processo di “conquista” della Chiesa universale, iniziato nel 1891.
Prima che Leone XIII pubblicasse la sua Rerum novarum, nel 1891, la “questione sociale” era stata a lungo discussa tra i vescovi degli Stati Uniti, dove la rapida industrializzazione aveva messo una classe operaia essenzialmente cattolica di fronte ad una serie di problemi che la Chiesa non aveva mai affrontato prima d’allora. La battaglia combattuta con successo a Roma da alcuni vescovi statunitensi per ottenere l’autorizzazione ad organizzare forze sindacali aprirono le porte alla “dottrina sociale” cattolica, uno dei punti di svolta più importanti del rapporto tra Chiesa cattolica e “modernità”. Da allora, l’influenza dell’esperienza americana su Roma è cresciuta costantemente. E non solo perché gli Stati Uniti erano diventati, sin dalla fine dell’Ottocento, il maggior finanziatore della Chiesa universale.
Molti dei principi accettati dal Concilio Vaticano II – in particolare la libertà religiosa e la libertà di coscienza – sono stati tratti principalmente dall’esperienza americana. Oggi, di fronte all’espansione dei processi di secolarizzazione, ad una crescente disaffezione del proprio gregge, e alla concorrenza di altre religioni, anche in paesi tradizionalmente cattolici, il Vaticano è giunto ad accettare quella che si potrebbe definire la mentalità imprenditoriale del “modello americano”: la competizione con le altre denominazioni, allo scopo di assicurarsi l’adesione – e le offerte – del maggior numero possibile di fedeli. Questo “libero mercato della fede” è spesso considerato come uno dei principali fattori alla base dell’eccezionale vivacità religiosa degli americani; contrariamente alle rendite di posizione monopolistiche dei cattolici nell’Europa del sud (e in America Latina), dei protestanti in quella del nord, e degli ortodossi all’est, che sono invece considerate tra le cause principali del declino della vita religiosa nel Vecchio Continente. Oltre alla sua comprovata efficacia, il “modello americano” offre alla Chiesa cattolica un altro potenziale vantaggio, almeno in teoria: in qualunque sistema basato sulla libera concorrenza, è il concorrente più attrezzato che ha le maggiori probabilità di successo.
In America Latina, la Chiesa cattolica ha fallito quando ha cercato di vincere la concorrenza evangelica facendo esclusivamente ricorso all’anatema. Jorge Mario Bergoglio ha portato da Buenos Aires a Roma la teoria – e soprattutto la pratica – di una Chiesa «in uscita», in «stato permanente di missione», «verso le periferie del proprio territorio o verso i nuovi ambiti socio-culturali» (Evangelii Gaudium, 2013); vale a dire, una Chiesa che ha imparato a fare quello che fanno gli evangelici, e a competere con loro sul loro stesso terreno – con il vantaggio incomparabile di essere molto meglio attrezzata di loro. Negli anni del desarrollo latinoamericano, gli evangelici hanno risvegliato e riportato alle pratiche religiose soprattutto i battezzati non praticanti, trascurati da una Chiesa troppo istituzionale. Tuttavia, gli evangelici non hanno l’unità di intenti né l’esperienza sufficienti per trasformare i loro successi momentanei in organizzazione durevole e, quindi, in macchina politica. Solo la solida e ben radicata macchina organizzativa della Chiesa cattolica può farlo, a condizione di abbandonare parte dei propri privilegi, del proprio ruolo istituzionale e tutte le sue tentazioni sovversive, e di essere “in uscita”.
In conclusione, occorre essere ben chiari su un punto: nonostante la sua progressiva “americanizzazione”, la Chiesa non si basa sugli Stati Uniti, né su qualsiasi altro potere politico o economico, per rafforzarsi e accrescere la propria influenza. Essa non rifiuta alcun aiuto – materiale o politico – a condizione che la sua libertà di azione sia garantita. La Chiesa prospera grazie alla sua autonomia (chiamata “opposizione profetica”), con risultati al limite del paradossale: tanto più essa critica il consumismo, l’American way of life, la pena di morte, la legislazione anti-immigrazione, l’aborto, il “relativismo etico” e la guerra in Iraq, tanto più è popolare e corteggiata negli Stati Uniti. La Chiesa cattolica ha la propria agenda politico-spirituale, che non corrisponde all’agenda di nessun’altra potenza: il suo scopo è «la guida normativa della vita sociale umana», come scriveva Carl Schmitt nel 1923. Trasposto sul piano internazionale, l’obiettivo diventa – per servirsi delle parole di Benedetto XVI – la realizzazione di «una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII»: cioè, un’autorità «postulata dall’ordine morale e [che] deriva da Dio» (Pacem in Terris, 1963).
Sull’altro fronte, sembra del tutto implausibile che a Washington qualcuno possa pensare di risolvere l’attuale equazione storica dello shift of power a livello globale riempiendo di cattolici la Corte Suprema, l’amministrazione e la leadership militare, per non parlare delle fila dei candidati presidenziali; soprattutto perché quella leadership politica cattolica non si esprime in nome della Chiesa: né Joe Biden, né John Kerry, né John Boehner, né Sonia Sotomayor sono rappresentanti ufficiali – né ufficiosi – degli interessi, delle politiche e degli obiettivi della Chiesa cattolica. Nondimeno, sono la personificazione di una tendenza facilmente individuabile: come se, in questo momento storico, la coincidenza tra il ritorno delle religioni sulla scena pubblica e il relativo declino economico degli Stati Uniti avesse reso più stringente la necessità di aprire il maggior numero possibile di linee di comunicazione con la Chiesa cattolica. Cioè, con un’istituzione che è al tempo stesso un solido punto di riferimento morale e psicologico, con una vasta base sociale, e una rete di relazioni con le classi dirigenti della maggior parte degli Stati del mondo.
Nel 1978, ai funerali di Paolo VI, il presidente Carter mandò sua madre come rappresentante ufficiale degli Stati Uniti. Nel 2005, ai funerali di Giovanni Paolo II parteciparono il presidente in carica, George W. Bush, i suoi due immediati predecessori, Bill Clinton e George H.W. Bush, e il segretario di Stato Condoleezza Rice (in aggiunta a una delegazione non ufficiale, tra cui spiccavano John Kerry, Edward Kennedy, Michael Bloomberg, George Pataki, il leader repubblicano al Senato Bill Frist e il capo dello staff della Casa Bianca Andrew Card). Per molti commentatori, una delegazione così nutrita e influente, guidata da tre presidenti, voleva rendere un appropriato tributo di riconoscenza a colui che, insieme a Ronald Reagan, aveva contribuito in maniera decisiva alla caduta dell’“impero del male” sovietico.
Ci sono state, senza dubbio, fondamentali considerazioni geopolitiche in tale tributo. Ma la nostra ipotesi è che esso riguardasse non solo le convergenze del passato, ma anche, e forse soprattutto, le possibili convergenze del futuro.
Note
1) Vecchio e fortunato ossimoro del politichese degli anni Sessanta in Italia, che avrebbe dovuto illustrare la capacità di due partiti (la DC e il PSI) di convergere pur perseguendo i propri diversi obiettivi.
2) Gli altri cinque sono stati nominati da Reagan (due), da Bush padre (uno) e da Bush figlio (due).
3) La differenza è tra la percentuale dei battezzati, che è intorno al 30% della popolazione, e che corrisponde alla statistica ufficiale della Chiesa, e la percentuale dei self-declared, che era del 25% nel 2008. Quest’ultimo dato proviene da un’inchiesta chiamata American Religious Identification Survey (ARIS), dei cui risultati si serve l’United States Census Bureau per determinare la composizione religiosa della popolazione. L’ultima fu svolta nel 2008 su una base campionaria di 54.461 persone.
4) Papa Francesco ha recentemente ribadito lo stesso concetto: «Veniamo da una pratica pastorale secolare in cui la chiesa era l’unico referente della cultura… Ma non siamo più in quell’epoca. E’ passata. Non siamo nella cristianità, non più. Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati» (udienza ai partecipanti al Congresso Internazionale della Pastorale delle Grandi Città, 27 novembre, 2014).