Con l’elezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica, al netto dei tatticismi di Matteo Renzi, ai vertici della politica italiana si interrompe, almeno in parte, una lunga e buia parentesi massonica. Al Quirinale non torna un semplice cattolico, ma un esponente genuino del popolarismo sturziano. In un’Europa avvelenata da ‘grembiuli’, ‘squadre’ e ‘compassi’, l’arrivo di un seguace di don Luigi Sturzo è un fatto importante. Un argine al dilagare non dell’etica protestante descritta da Max Weber, ma della prassi del denaro, della finanza senza scrupoli e delle banche. Piaccia o no, ma con il nuovo capo dello Stato l’Italia non potrà più essere un Paese che aderisce acriticamente a un europeismo che ha tradito le proprie radici popolari.
Non sappiamo se questo sia un segnale lanciato da Renzi che, alla fine, con questa candidatura, ha ‘stoppato’ Romano Prodi, sponsorizzato da un Movimento 5 Stelle sempre più confuso, che ha messo insieme il referendum per uscire dall’euro e l’uomo – Prodi, per l’appunto – che fatto entrare l’Italia nel sistema euro, per altro con un cambio molto sfavorevole. Ma sappiamo che Sergio Mattarella è lontano mille miglia da personaggi come Monti e da un’idea della vita diversa da quella cristiana.
Per la Sicilia, poi, è una tripla vittoria. Primo: per la prima volta un siciliano va alla Presidenza della Repubblica. Secondo: si tratta di una delle figure migliori espresse dalla politica siciliana degli ultimi trent’anni. Terzo: è un uomo che conosce a fondo la storia della sua terra e sa quanto sia importante l’Autonomia e quanto sia ancora più importante rilanciarla.
Uomo schivo, di poche parole, mai sopra il rigo, concreto, Sergio Mattarella non era stato designato all’agone politico. Il padre, Bernardo Mattarella, tra i fondatori della Dc, parlamentare nazionale dello Scudocrociato dal 1948 al 1971, anno della sua morte, aveva indicato come erede il fratello, Piersanti Mattarella. E sarà proprio la morte di quest’ultimo – ucciso il 6 gennaio del 1980, a Palermo – a catapultare Sergio Mattarella in politica. Piersanti Mattarella, impegnato sul fronte della lotta concreta alla mafia, lascerà un grande vuoto.
Il fratello impiegherà tre anni prima di accettarne l’eredità politica. A convincerlo, nel 1983, è l’allora segretario nazionale della Dc, Ciriaco De Mita. E’ De Mita che lo schioda dalla cattedra di Diritto parlamentare dell’università di Palermo per candidarlo alle elezioni politiche di quell’anno.
Difficile dire cosa passava per la testa di Sergio Mattarella nel lontano 1983. Pochi mesi prima delle elezioni politiche, al congresso regionale della Dc siciliana andato in scena ad Agrigento, De Mita in persona aveva chiesto e ottenuto la testa di Vito Ciancimino, il potentissimo ex sindaco di Palermo che, con un pacchetto di tessere di quasi il 4 per cento, si ritrova fuori dal partito nel quale aveva militato per oltre 35 anni. Schierarsi con De Mita, a Palermo, nella città dove ‘Don’ Vito Ciancimino dettava legge dagli anni del secondo dopoguerra, significava schierarsi contro lo stesso ex sindaco di Palermo. Tutto questo in un momento in cui erano già caduti sotto il piombo mafioso il giudice Cesare Terranova, Boris Giuliano, il procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa (oltre ai già citato Piersanti Mattarella sul cui delitto permangono ancora oggi molte ombre).
Sergio Mattarella accetta la sfida. Così diventa automaticamente il leader della corrente morotea della Dc siciliana della quale suo fratello Piersanti era il leader indiscusso. L’anno dopo, 1984, il solito De Mita lo nomina commissario della Dc di Palermo. E entra di diritto tra i big dello Scudocrociato siciliano di quegli anni accanto a Nino Gullotti, Calogero Mannino, Rino Nicolosi, Salvo Lima, Nino Drago, Salvatore D’Alia, Giuseppe Sinesio, solo per citarne alcuni.
Nel 1985 lancia la candidatura di un allora giovane Leoluca Orlando a sindaco di Palermo. Sindaco di una giunta di pentapartito. Due anni dopo è iniziata la lunga ‘guerra’ tra De Mita e Bettino Craxi. Ed è proprio a Palermo che si consuma il primo strappo: nell’agosto del 1987 la Dc sbatte fuori dalla giunta comunale il Psi e, sempre con Orlando sindaco, vara la giunta ‘penta colore in salsa rossa’, dove il rosso è quello del Pci, che rimane fuori dall’amministrazione, anche se appoggiando l’esperienza dall’esterno.
Nata come operazione voluta da De Mita per dare scacco ai socialisti, Orlando finisce con il personalizzare questa esperienza, enfatizzando una lotta alla mafia in parte vera e in parte di facciata (per la cronaca, Vito Ciancimino continuerà a gestire gli appalti del Comune di Palermo insieme ai suoi amici mafiosi, un’inchiesta penale proprio su tali appalti verrà insabbiata, mentre il pubblico ministero che gestiva anche questa inchiesta – Alberto Di Pisa – verrà coinvolto nella strana storia del ‘Corvo’). Sergio Mattarella non seguirà Orlando. Il suo nome non sarà mai associato a quello di padre Ennio Pintacuda e della Rete di Orlando. Rimarrà sempre nella Dc, ricoprendo più volte la carica di ministro. Per la cronaca, Mattarella sarà uno dei ministri del governo Andreotti che si dimetterà per protestare contro la legge Mammì, provvedimento che sancirà la vittoria di Silvio Berlusconi e delle sua tv.
Prima che i furori di Tangentopoli ‘inghiottano’ la Dc, Mattarella ha il tempo di diventare commissario regionale del partito in Sicilia. E di ‘pilotare’ il governo regionale di Giuseppe Campione con dentro il Pds, che nel frattempo ha preso il Posto del Pci. Sarà un governo regionale importante, quello di Campione. Che romperà equilibri che erano rimasti ‘cristallizzati’ per oltre cinquant’anni. Merito del governo Campione – e di Mattarella che operava dietro le quinte – è legge che introduce per la prima volta in Italia l’elezione diretta del sindaco.
La fine della Dc dà luogo a una diaspora. C’è chi trova ‘ospitalità’ dentro Forza Italia. Chi punta sul Ccd, chi sul Cdu. E chi, come Mattarella, riprova l’avventura del Partito popolare di sturziana memoria. Alla fine, quella che era stata la sinistra Dc fonda la Margherita. Mattarella è lì. E ci resterà (ricoprendo le cariche di ministro e vice presidente del Consiglio) fino alla nascita del Partito democratico.
Sergio Mattarella – che è l’inventore della legge elettorale passata alla storia come Mattarellum (legge elettorale che è rimasta in vigore fino a prima del Porcellum) – è stato parlamentare per 25 anni: dal 1983 al 2008. Dopo è tornato a svolgere il suo mestiere professore di Diritto parlamentare. Tre anni dopo, nel 2011, è stato eletto giudice costituzionale.
Oggi torna alla ribalta. Sempre con il suo stile garbato, di poche parole. Misurato. Mai sopra il rigo. Solo una volta ha alzato i toni. E’ successo quando hanno tirato in ballo suo padre. Parliamo del già citato Bernardo Mattarella, figura che è stata consegnata alla storia in modo controverso. In quest’occasione – ed è stata forse l’unica volta nella sua avventura politica – Sergio Mattarella ha risposto per le rime. Ricordando a muso duro che suo padre, subito dopo la seconda guerra mondiale, era stato tenace avversario dei grandi agrari e dei monarchici (che allora erano spesso la stessa cosa).
Su questo personaggio ci sono i racconti – tanti – in buona parte smentiti dai pronunciamenti della magistratura. E poi ci sono i fatti. I racconti lo hanno sempre dipinto come un uomo invischiato nelle vicende della banda Giuliano e della strage di Portella della Ginestra dell’1 maggio 1947.
Solo che le ricostruzioni che avrebbero dovuto inchiodare Bernardo Mattarella sono state, in buona parte, smentite dai brandelli di verità venuti fuori soprattutto negli ultimi vent’anni. Chiarimenti arrivati dagli archivi statunitensi, perché quelli italiani sono ancora segreti, protetti da una politica che non ci tiene a ricostruire con esattezza quanto avvenuto in quegli anni.
Si racconta che Bernando Mattarella avrebbe incontrato Giuliano qualche giorno prima della strage di Portella. Dando per scontato che a sparare sui contadini, la mattina dell’1 maggio 1947, siano stati proprio gli uomini della banda Giuliano. Ma dagli atti del processo di Viterbo e dagli studi effettuati dallo storico Giuseppe Casarrubea viene fuori che Giuliano e i suoi uomini, la mattina della strage, vennero dirottati nelle gole che sovrastano la piana di Portella per coprire un’operazione stragista orchestrata dalla mafia di Monreale e, forse, dai servizi segreti americani. In questo scenario le accuse rivolte a Bernardo Mattarella sembrano fuorvianti, o addirittura ‘confezionate’ per depistare la verità.
Anche la lunga polemica che vide contrapposti lo stesso onorevole Bernardo Mattarella con Danilo Dolci, il sociologo trentino che negli anni ’50 si era trasferito in Sicilia, dalle parti di Partinico, alle fine si concluse bene per l’esponente democristiano, assolto dalle accuse. Insomma, su Bernardo Mattarella non mancano i fatti che smentiscono i racconti. La verità è che certe storie andrebbero sempre inquadrate negli anni in cui si sono verificate. Possibilmente al netto delle speculazioni e delle strumentalizzazioni politiche (su questo fronte il Pci siciliano ha molto da farsi perdonare).
Tra i fatti ci sono anche gli anni dell’infanzia di Bernardo Mattarella. Nel suo paese, Castellammare del Golfo, provincia di Trapani. Compagno di classe di quello che poi diventerà Joseph Bonanno, detto Joe Bananas. Un fatto, poi trasformato in racconto dallo stesso boss di Cosa nostra americana, che rievocherà l’amicizia con il deputato democristiano nel suo libro di memorie.
Queste ed altre storie, da qualche giorno, si leggono sui tanti giornali. E’ la legge del potere: chi lo va ad occupare va messo sottosopra. Tirando in ballo parenti e amici. In parte l’abbiamo fatto anche noi. Cercando di distinguere – nel caso di Bernardo Mattarella – ciò che è stato provato da ciò che non è mai stato provato. Ricordando, comunque, che la Dc siciliana degli anni ‘40’, ’50 e ’60 non era fatta da angeli. Anche se negli altri partiti non c’erano santi.