Allora: Sergio Mattarella, Professore, Giudice costituzionale e molto altro. Ma, soprattutto, Mattarella. Che sia fratello di Piersanti non è solo una nota biografica: è la causa della sua vicenda politica. Mentre invece che sia figlio di Bernardo è solo una nota biografica. Com’è noto, contro il padre, notabile democristiano dell’Agro di Castellammare del Golfo, si addensò, negli anni, “qualche ombra”, come la definì, asciutto, il Generale Dalla Chiesa, nella nota intervista a Giorgio Bocca. Morì che il figlio Sergio aveva trent’anni: nè mai alcuno ha potuto inarcare un sopracciglio su possibili ombre allungatesi per via ereditaria, nonostante un ventennio di pischedeliche e garrule cupezze cianciminesche e trattativistiche.
Quanto al partito, qualche presenza in ambito giovanile cattolico, ma poca cosa, roba da efebato: il politico era Piersanti; lui, Sergio, era destinato, dall’indiscusso standing familiare, a studiare e insegnare. Poi, nell’Epifania del 1980 il maggiore fu ucciso: e il minore, mite quanto l’altro era brillante, non più che volenteroso quanto il fratello era audace e ardito, con l’anima dell’attendente che raccoglie la spada del generale caduto, su quel sangue impegnò il suo onore e indossò il suo cognome come una divisa. La figura pubblica è stata com’era l’uomo: ricca di understatement, parca negli inevitabili riverberi della mestizia.
Così, quando si dimise dal Sesto Governo Andreotti, aderì senza strepiti ad una iniziativa politica di De Mita, che colse l’occasione della Legge Mammi’ (settore Tv e giornali) per tentare un’ostile crisi di governo (nella decennale battaglia con Craxi, era di pochi mesi il doppio uppercut che all’uomo di Nusco era costato Segreteria del partito e Palazzo Chigi). Le “dimissioni ideali”, con cui in queste ore ha giocherellato Renzi, lasciamole a Twitter.
Nella guerriglia di Tangentopoli, poi, Mattarella legò infelicemente il suo epico cognome all’algido funzionalismo di una legge elettorale, che nel disordine storico-politico di quei mesi, si volle, da un Parlamento in rotta, allineata alla coeva sarabanda referendaria. Ma chiuse solo il sipario: la scena aveva avuto altri attori.
Si è opposto, ha criticato, ha parlato quando voleva, tuttavia senza schiamazzi, senza giugulari en plein air. Anche nelle polemiche dirette, non ha mai oltrepassato la buona creanza: Berlusconi si disse erede di De Gasperi: lui precisò che lo statista apparteneva a tutti, ma questo non significava che chiunque potesse “chiamarsi suo seguace”. Quel “chiunque” fu un capolavoro di simbolismo patrizio.
E pure dove la questione era più caldamente politica, come la proposta adesione di Forza Italia (la prima versione) al Partito Popolare Europeo, fu icastico ma mai offensivo: “incubo irrazionale”. Solo quando Claudio Martelli (era 1992, e il “Delfino di Craxi” stava cercando di vendere l’anima al diavolo Mani Pulite), da Ministro, con quell’ambiguità pierinesca che ne ha accompagnato la carriera, rievocò la figura democristiana di Mattarella padre sul registro dell’intemerata antimafiosa, consegnò alle cronache un sincero sussulto sanguigno: “incivile abitudine di insultare le persone morte”. Ma è stato e rimane un caso isolato (e comunque metaforico) di voce alta, un apax legòmenon in una vita di sussurri conversevoli.
Questo è tutto. Come memoria e understatement vivranno al Quirinale lo vedremo in corso d’opera. Per il momento, ragionevolmente, si può solo tacere.
Ma se Sergio Mattarella nasce politico sotto il segno del sangue siciliano, riceve la corona dal brio fiorentino. Perchè, c’è poco da fare: questa è una vittoria di Matteo Renzi, anzi un trionfo. Con qualche rischio. Ma, per il momento, stravince.
Ha atteso che il Patto del Nazareno, cioè la simultanea irrilevanza parlamentare di vecchia Ditta (Bersani &Co) e del M5S, giungesse al suo massimo grado di maturazione: l’ultimo frutto è stata la liquidazione dell’ostruzionismo sesquipedale avanzato sulla legge elettorale con l’emendamento Gotor; ma in questi mesi ha potuto attendere che il Movimento 5Stelle finisse di smontarsi da solo, completando l’esautoramento della vecchia Ditta sui fronti-bandiera delle Riforme: Senato e legge elettorale.
La durezza con cui ha posto in votazione il candidato unico Mattarella gli è servita a mettere Berlusconi nell’angolo e, quindi, per recedere dal Patto: alla quarta votazione, si è arrivati con questa nuova situazione: A) voto unanime: bene, ma tutti sanno che è stata sua la paternità politica dell’elezione, proprio per la perentorietà della designazione: con il bonus di essere un Segretario che, dopo mesi di gelo, si volge compiacente verso la minoranza interna; B) voto senza Forza Italia, meglio: vittoria in solitaria. Alla Ditta, invece, si presentava questa alternativa: C) o cedere alla tentazione di organizzare una pattuglia di franchi tiratori; e, allora, il Nostro avrebbe potuto indicarli come quelli che avevano egoisticamente sprecato un’occasione propizia per ricomporre l’unità del Partito, rianimando il ruolo di Forza Italia; oppure D), votare “in armonia”; in questo caso, come sopra; vittoria di Renzi (Mattarella che prende 665 voti), più vittoria di Renzi (PD).
Certo, così si è aperta un’altra fase: con Forza Italia all’opposizione, o alla semiopposizione (che è ancora peggio). Sciolto o allentato il Patto, tornerà a garrire il cappio giudiziario, giacchè in certe aree è previsto il Sistema Loreto. E, se Renzi fingerà di non capire, prima o poi toccherà a lui. Perciò, la riforma effettiva dell’Ordine Giudiziario potrà mitigare il distacco con Forza Italia. Tuttavia questo campo e le intenzioni relative rimangono ancora molto nebulosi.
Nel frattempo, è possibile che le riforme non si completino; la consueta avidità politica di chi ancora non si rassegna a perdere lo scettro interno al PD indurrà frizioni non gestibili; nè Renzi pare abbia interesse a rianimare il M5S, per compensare il probabile ritorno all’antico dei bersaniani. Allora presto si tornerà a discutere di elezioni anticipate, magari con il sistema proporzionale.
A quel punto, però, con l’Italia che boccheggia (sia pure a macchia di leopardo), nessuno potrà essere sicuro di niente. Nemmeno il lucido e spregiudicato Presidente del Consiglio in carica.