Il referendum (perso) per l’indipendenza della Scozia ha scatenato l’immaginazione dei leghisti nostrani, facendoli avventurare in arditi e poco plausibili paralleli tra la causa per l’autonomia della Scozia (e della Catalogna, tra poco) e quella per l’indipendenza della cosiddetta Padania.
Mio nonno, la nonna di mio nonno e anche i nonni dei leghisti non hanno mai saputo di essere ‘padani’. I nonni e i bisnonni del mio amico Ricard, al contrario, hanno sempre saputo di essere catalani, i nonni e i bisnonni di Sean Connery sapevano di essere scozzesi (anche per via di quelle sottanine a pieghe che dovevano portare in certe occasioni vergognandosi come cani davanti ai loro amichetti non scozzesi). I nonni di Ricard, così come i suoi genitori e lui stesso, parlano e hanno sempre parlato una lingua romanza diversa dallo spagnolo e da tutte le altre lingue romanze. Una lingua con una splendida e fiorente letteratura che risale al Medioevo. La Catalogna come regione cerca dalla notte dei tempi di definire i termini di una sua autonomia rispetto alla Castiglia e al Regno di Aragona di cui ha fatto parte per secoli.
Per la Scozia, stessa cosa rispetto all’Inghilterra, stesse ragioni storiche meno la lingua (gli scozzesi parlano inglese; sì lo so con un accento assurdo ma lo parlano) ma con la differenza della religione (la variante riformata del protestantesimo scozzese è presbiteriana, anziché episcopaliana come quella della Church of England). Ergo, siccome i miei nonni, i nonni dei miei nonni e anche i nonni di Salvini non sapevano di vivere in un posto chiamato “Padania”, non parlavano una lingua unica, ma una miriade di dialetti spesso incomprensibili a pochi chilometri di distanza dai posti in cui vengono parlati (per la cronaca io capisco di più uno che parla dialetto napoletano di un bergamasco delle valli che parla dialetto stretto). Per tutte queste ragioni e molte di più, la richiesta di indipendenza di scozzesi e catalani ha un senso, storico, giuridico e culturale (politicamente potete pensarne quel che vi pare), mentre quella della Padania è priva di alcun fondamento storico e culturale.
Qualcuno obietterà che i nostri bis e trisnonni forse non sapevano neanche bene di essere italiani, ma senz’altro erano consapevoli di essere bozzolesi, rivarolesi, forse mantovani, senz’altro non ‘padani’. Riguardo ai nonni e bisnonni, è difficile conoscere il loro senso di identità nazionale. A partire dall’Ottocento sappiamo, soprattutto dalla letteratura e dall’opera, che un senso di appartenenza italiana inizia ad esistere soprattutto tra la borghesia e le classi colte. Quel che è certo è che non si sentirono mai spagnoli, francesi o austriaci anche quando erano dominati da queste potenze. Anche chi simpatizzava per il dominio asburgico a Milano, ad esempio, si definiva austriacante, mai austriaco.
A causa della nostra storia, l’identità degli italiani (in particolare di quelli del Centro-nord) è sempre stata cittadina: la parola campanilismo l’abbiamo inventata noi e mi sembra non abbia una parola equivalente in altre lingue. L’orgoglio di appartenenza nasce (e in parte muore) con le città-stato del nostro Medioevo. Gli stati regionali nacquero grazie al disegno egemonico di alcune ambiziose famiglie e si stabilizzarono grazie all’appoggio militare ed economico delle famiglie reali europee che piano piano si erano imparentate con i signori locali. A differenza delle città-stato, gli stati regionali sono sempre stati percepiti come istituzioni artificiali imposte dall’alto e, soprattutto, da “forestieri”. Tant’è vero che non si trovava più nessuno disposto a farsi ammazzare per le loro guerre e per secoli in Italia si scontrarono eserciti mercenari al soldo di questo o quel signore. Ma la Padania, inventata per l’appunto (come espressione politica) qualche decennio fa, non è mai esistita neppure come stato regionale. Così come la Lombardia: per circa due secoli gli spagnoli dominarono il Milanesado, ma a Mantova non arrivarono e Brescia fu per tre secoli territorio di terraferma della Serenissima etc. etc.
Per concludere:
a) le più forti identità di appartenenza in Italia sono quelle cittadine, non quelle legate agli stati regionali di antico regime o alle regioni introdotte dalla Costituzione della Repubblica;
b) da circa duecento anni però gli italiani hanno cominciato a considerare i fattori che li rendono unici e uniti, nonostante le evidenti differenze, “Una d’arme, di lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue e di cor” per riassumere col Manzoni;
c) l’espressione geografica Padania, sinonimo del più comune “Val Padana”, è stata adottata dalla Lega e caricata di valenze etniche, storiche e culturali che non ha mai avuto, per giustificare un disegno autonomista (o separatista, non si è ancora capito visto che sul tema i capi e capetti leghisti sono in disaccordo e sembrano cambiare idea ogni giorno);
d) il piano autonomista (o separatista, o secessionista) della Lega in realtà si basa su considerazioni assai meno idealiste e più contingenti: “siamo la parte più ricca e produttiva d’Italia, teniamoci i nostri soldi e che gli altri si arrangino”.
Quindi, la Lega ha tutti i diritti di propagandare e perseguire il suo programma basato su una forma estrema di egoismo regionale, ma lasci perdere paragoni e parallelismi storici e culturali con altre realtà europee con cui non ha nulla a che fare. Quando vogliamo ridere leggendo una barzelletta andiamo sul sito del Vernacoliere, che è scritto in dialetto livornese, ma che capiamo tutti.
Stefano Albertini, nato a Bozzolo, in provincia di Mantova, PhD a Stanford con una tesi su Machiavelli, dal 1994 insegna cinema e letteratura italiana al Dipartimento d’Italiano della New York University. Dal 1999, è il direttore della Casa Italiana Zerilli Marimò della NYU