È sotto gli occhi di tutti, e purtroppo da decenni, quanto nel nostro Paese sia assente (o quasi) un’autentica e radicata cultura di democrazia liberale.
Non ci deve quindi stupire il fatto che professionisti della politica (Weber mi perdoni!), del sindacalismo e soprattutto che vestali della democrazia abbiano le idee molto confuse. Talora addirittura molto di più di uno studente alle prime armi e in attesa di affrontare il primo esame di storia del pensiero politico.
Quando si coniuga democrazia con “giusto” e “ingiusto”, con “vero” e “falso”, quando ci si propone o ci si vive come gli (unici) portatori di un modello sociale, che “deve” essere realizzato a tutti i costi (ma che purtroppo poteri forti, imbroglioni e profittatori non hanno permesso e non permettono di realizzare), si pongono tutte le premesse per mettere in atto forme di totalitarismo da portatori di verità.
O meglio, forme di totalitarismo da depositari di un “dover essere” forte e non negoziabile, di una realtà cioè come dovrebbe essere (“io so bene come deve essere”, ci dicono questi soloni), ma che non “diventa mai essere”, vale a dire che per mille intrallazzi e imbrogli della storia (e della politica) non si realizza mai, non si riesce a mettere in pratica.
Ma siamo proprio certi che sia questo il percorso salvifico per la nostra società “aperta”, “liquida”, estremamente complessa, composita e interconnessa a livello mondiale? Sommessamente, ma con fermezza, mi sento di poter affermare che non è così e che, anzi, è proprio questo il modello da evitare.
Riflettete bene. Questo modello è quello del socialismo reale, quello della guerra fredda, del muro di Berlino.
Tento di dare un’idea dell’essenza e dello spirito di questo modello.
«IO, somma guida e governante supremo per il diritto che mi viene dal sapere molto bene ed esattamente quello che devo far fare a voi sudditi-cittadini, IO che ho il dovere di insegnarvi (anche contro la vostra volontà e la vostra libertà personale) ciò che dovete fare per poter così salvare lo “spirito” e l’“animo profondo” di questo Paese, IO non posso certo tacere e devo anzi fare di tutto per evitare che commettiate gli errori più imperdonabili. E lo devo fare con la massima determinazione, senza guardare in faccia nessuno, soprattutto devo agire contro quei dannati moderati e sedicenti democratici, che questo Paese lo vorrebbero riformare sul serio, e magari farlo funzionare anche meglio di come funziona ora».
È questa la summa, o abecedario se volete, del comportamento assunto per decenni da capi politici o potenti di vario genere e livello nei Paesi d’oltre cortina. Ma, badate bene, non nell’Unione Sovietica, il cui pragmatismo politico era degno del più puro realismo alla Machiavelli, bensì nella ex DDR, la Deutsche Demokratische Republik. Quella Repubblica Democratica Tedesca che si è trovata costretta a reinventarsi come nazione tedesca (ma “diversa” dalla Germania già esistente) quando fu fatta nascere nel 1949, quando dovette cioè crearsi un’immagine interna (operando a tutto tondo e con risolutezza per imprimerla nei propri cittadini) ed esterna (nei confronti delle altre repubbliche sovietiche e soprattutto di fronte al mondo).
E l’immagine scelta fu, ovviamente, quella di una “repubblica rivoluzionaria”, basata sullo “spirito rivoluzionario” che ha sempre pervaso e pervade la storia e l’indole tedesca (ma quale?), per proporsi come unica e vera erede della “Germanicità”, vale a dire dell’animo tedesco autentico, totalmente tradito invece dall’altra Germania. Quella “tradizionale” dell’Ovest, per intenderci, la Bundesrepublik Deutschland, la Repubblica Federale tedesca con capitale Bonn, una capitale da operetta e comunque totalmente asservita al più bieco capitalismo americano, al dio mercato, al liberismo più spinto, alla negazione cioè della vera democrazia. Una vera democrazia che invece doveva fondarsi sullo spirito rivoluzionario e rigeneratore dell’uomo e dell’umanità, incarnata ovviamente dalla neonata DDR e sempre più baciata dai suoi successi (dopati) nello sport, nell’economia (era proprio vero?) e nella realizzazione di ogni liberazione da forme reazionarie di schiavitù.
Ma l’altra Germania, quella dell’Ovest, non era basata su parlamentarismo, su libere elezioni, sulla libertà di stampa, sulla separazione dei poteri, insomma sugli gli assi portanti della democrazia?
«Allora proprio non vuoi capire!». Mi sembra di sentirmi rispondere. «Queste erano e sono solo maschere imposte della reazione capitalista e dai quei dannati di americani!».
Ripercorro queste dolorose e talora drammatiche vicende che hanno segnato e accompagnato la mia lontana giovinezza, mentre rifletto ora sull’Italia di oggi e me ne servo per capire meglio quanto mi sta succedendo intorno.
Lungi da me il voler additare la Germania dell’Ovest come modello da imitare; è mio invece l’intento di assumerla come metro per comprendere con maggior chiarezza questo guazzabuglio che sta agitando ormai da tempo il nostro Paese, dove la costruzione di miti politici e di slogan vissuti sempre più come “veri”, anzi come “la verità”, sta portandoci verso baratri ideologici, verso irriducibili antagonismi politici e comunicativi da vera e propria guerra fredda (se non da irriducibili guerre di religione).
E la libertà che fine ha fatto? Tranquilli, la tanto decantata ma rigorosamente evitata democrazia liberale è sempre in cantina, dove l’hanno relegata generazioni di politici e di sindacalisti dalla faccia perennemente incavolata (siano essi uomini o donne). Politici e sindacalisti che della libertà se ne fregano e pretendono piuttosto di sbandierare lotte per la liberazione interiore ed esteriore.
Quella liberazione che vorremmo tutti, ma nel rispetto del più elementare stato di diritto, il solo in grado di garantire a tutti, ma proprio a tutti, pari libertà e diritti sociali e politici.
Ahimè, mi accorgo che sto parlando di nuovo di quella democrazia liberale tanto scomoda, disprezzata e incompresa, che è bene che continui a restare ben chiusa in cantina.
Soprattutto in un momento come questo in cui (pur con tutti i limiti e le giustissime critiche che ciò comporta e deve comportare) si rischia veramente di riformare lo Stato, la pubblica amministrazione, la burocrazia e sinanco pezzi di società.
*Enzo Baldini, Professore di Scienze Politiche dell'Università di Torino, insegna "Storia del pensiero politico" e anche "Laboratorio Internet per la ricerca storica". Ha lavorato su internet fin dagli albori della rete, è stato tra i creatori della Biblioteca italiana telematica www.bibliotecaitaliana.it e poi del consorzio interuniversitario ICoN-Italian culture on the Net:www.italicon.it, del quale continua ad occuparsi
ti.otinu @inidlab.ozne