C’è molto di questi anni, nella polemica fra il Presidente del Consiglio Matteo Renzi e i Prof. Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, quest'ultimi promotori di un appello per "fermare la svolta autoritaria". Ci sono conflitti, ci sono incomprensioni, qualche verità e qualche bugia.
Cominciamo dalla verità (dalla verità interna a questa polemica, naturalmente: solo quella). Il testo del Disegno di Legge per la riforma del Senato è sgrammaticato, come ieri rilevava Rodotà. Tuttavia non solo il rilievo non è minimo, ma introduce un tema più vasto. L’Ufficio Affari Legislativi e Relazioni Parlamentari, fra i suoi compiti “Garantisce la qualità del linguaggio normativo”, giacchè, com’è noto, i testi o sono materialmente redatti dai funzionari dell’Ufficio o sono sottoposti alla loro (remunerata) supervisione. Perciò il Prof. Rodotà avrebbe almeno potuto accennare alla questione. Ma i funzionari sono lì da prima che arrivasse Renzi e, magari, potrebbero risultare di “area”; perciò, meglio sorvolare. Da questo primo nucleo di analisi, quasi nascosto e ammuffito fra le pieghe del labirinto burocratico, ne nasce subito un altro. Essendo la sgrammaticatura, propriamente intesa, una carenza radicale, si pone la questione del valore da riconoscere alle attestazioni dei titoli di studio: materia di schietta competenza didattica. Vale a dire, sembra possibile che molti titoli di studio, più di quanti generalmente si ammetta, siano titoli falsi, che attestano quello che non è: come una banconota senza filigrana.
Se il veleno della sgrammaticatura è giunto sino alla Sede della Sovranità popolare, forse è l’intero sistema scolastico che dovrebbe intendersi coinvolto. Ma l’intero sistema scolastico è quello costruito negli ultimi cinquant’anni, sulla scorta di una spinta ad eliminare ogni sorta di filtro e di barriera all’ingresso, ritenuti di matrice classista. Si è attribuito valore di discriminazione a ciò che era una strutturale esigenza di funzionamento: distinguere e selezionare. E anche di questo equivoco egualitarista, il Prof. Rodotà, come anche il Prof. Zagrebelsky non sono certo ignari. Perciò da questa verità entrambi avrebbero potuto trarre qualche elemento di valutazione ulteriore e, forti della loro fama, diffonderla per li rami. Ma, evidentemente, era più urgente colpire, o tentare di colpire, Renzi.
E così, veniamo ai conflitti. Nel noto appello si legge di “modello padronale” e si configura, in sintesi, un’assimilazione di Renzi a Berlusconi. Non si compie un’analisi politica, ma si evoca una suggestione, non si articola il razionale, tipico del confronto, ma si aggruma l’irrazionale, proprio dello scontro: cioè del conflitto. E’ più facile agire in questo modo, perchè permette di recuperare l’intero deposito di invettive ed esagitate semplificazioni accumulato in vent’anni su Berlusconi. Mentre è più facile, e proprio perché è più facile, è però anche più irresponsabile. Renzi interroga la sinistra italiana sul suo futuro. E, quello che è più grave, lo fa, slang e visual identity a parte, con gli stessi argomenti di cui già si discuteva a metà degli anni ’80.
La ragione del blocco non è la radice comunista, del comunismo italiano organizzato nel Partito e convinto co-protagonista del difficile ma glorioso cammino che condusse dalle macerie della guerra fino all’imbocco degli anni ’70, passando per il boom economico. No, il freno, l’inibizione codina e reazionaria scaturiscono dalla stagione protestataria e narcisistica successiva a quella spinta, estranea e nemica di quella stagione. Scaturiscono da chi, sedicente di sinistra, si oppose a Luciano Lama, da chi nei cortei giocava con il cognome di Berlinguer -“Be-be-be, Berlinguer”-, per alludere ad una "succubanza ovina", manco a dirlo verso il “sistema”, con annesse insinuazioni di tradimento della causa pura e dura. Opporsi sempre, opporsi comunque, opporsi a chiunque tenti di immergersi nel flusso delle cose, traendone magari l’inevitabile alone di polvere e sudore, e poi volgersi compiaciuto a vellicare il ristagno rancoroso della frustrazione e della separatezza modaiola. Questo torrente limaccioso è stato un fenomeno sociale che ebbe attori giovani: poi il tempo è passato, ma gli attori, a quanto pare, hanno aggiornato la parte.
Non comprendere, sottrarsi allo studio dei fenomeni, specie quando questa diserzione avviene sull’altare (altare, si dice per dire) del pregiudizio, è il modo più vieto e sterile di accostarsi alla conoscenza. L’incomprensione non è un peccato veniale, è un peccato capitale. Nel Fedro, giunti ad un momento apicale del dialogo, al giovane timoroso di non apparire, nelle sue convinzioni, sufficientemente à la page, Socrate rimproverava di interessarsi di “chi parla e di dove è”, e di trascurare “se le cose stanno come egli dice”. Per cui, secondo il criterio del “chi parla e di dove è” (il “dove”, evidentemente, esprime una generale appartenenza ad un qualche ambito), nel 1985 il monocameralismo “secco” fu proposto dal Prof. Rodotà, in un testo di certo grammaticalmente corretto; ignorando però il criterio del “come stanno le cose”, se giuste o meno in sé, oggi si è potuto chiamare a raccolta contro le “derive autoritarie”. Le cose in sé sono le cose del mondo; le cose del mondo sono multiformi e complesse, richiedono partecipazione e compromesso costanti.
Negare questa necessaria vocazione centripeta della democrazia, affermare viceversa un’imperitura e gratuita alterità, è negare la verità della democrazia.
E negare la verità della democrazia, sottraendosi al difficile e sporco confronto, è la peggiore delle menzogne.
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