Sta passando sotto tono, in un paese distratto dal rischio istituzionale che gli impone il condannato Berlusconi, un anniversario storico che ha fortemente contribuito a strutturare il sistema politico italiano da un secolo a questa parte: il cosiddetto patto Gentiloni.
Il “patto” prende il nome da Vincenzo Ottorino Gentiloni, figlio di un ufficiale della milizia papalina, arrivato a Roma dall’anconetano, dove era nato quando il territorio apparteneva ancora allo Stato pontificio. Laureato in giurisprudenza, difese enti e attività cattoliche contro la militanza laicista e anticlericale del neonato stato unitario, guadagnandone notorietà, incarichi nelle organizzazioni confessionali, rango di conferenziere autorevole, sin quando papa Leone XIII lo nominò cameriere di cappa e spada. Pagò con l’accantonamento la scelta a favore dell’Opera dei Congressi, chiusa da Pio X nel 1904, e il successivo conflitto con la nascente Democrazia cristiana di Renato Murri protesa all’autonomia dalle gerarchie. Gentiloni viene recuperato nel 1909 da Pio X, che lo gratifica con la commenda di san Gregorio magno e lo mette a capo dell’Ueci, Unione elettorale cattolica italiana. La Chiesa si sta riaffacciando alla politica e cancella sommessamente ma con progressiva efficacia le conseguenze del non expedit (non conviene) di Pio IX, al fine di contrastare l’avanzata di socialisti e sinistra anticlericale.
Il conte diventa uno dei perni del vortice di rapporti che il clero mette in movimento per far cessare l’autoemarginazione dei cattolici dalla vita istituzionale dello stato unitario, con l’obiettivo di concentrare il voto dei credenti su candidati, anche liberali, che si riconoscano negli interessi della Chiesa. Gentiloni batte il tasto dell’ “obbligo di tutti i cattolici di impedire il male e rafforzare il bene”, il che tradotto in soldoni elettorali significa adoperarsi per togliere i voti degli operai a quella che era bollata come “propaganda assidua e perniciosa fatta dai nemici della religione”. Con l’opposizione dei cattolici democratici che, con Sturzo, lavorano sul modello partito Popolare e Democrazia Cristiana, e l’azione favorevole di organizzazioni come Ueci e Azione cattolica, riuscirà alla vigilia delle elezioni del 1913 a far sottoscrivere da molte componenti del frammentato mondo cattolico un documento in sette punti che viene offerto alla considerazione dei candidati. A chi vi si riconoscerà si garantisce il voto cattolico convogliato da parrocchie e istituti religiosi.
Con la decisione del parlamento di introdurre il suffragio elettorale maschile, nel 1912 la base elettorale attiva era stata ampliata da tre a otto milioni e mezzo, estendendo di fatto a ceti popolari sino allora esclusi la possibilità di decidere la maggioranza parlamentare. Per garantirsi l’appoggio di quella fascia sociale, il trasformista Giolitti concorda con Gentiloni l’impegno di suoi candidati liberali su temi come la difesa della famiglia contro leggi divorziste e l’insegnamento nelle scuole della religione cattolica. Il voto premierà soprattutto le opposizioni, quella storica socialista e quella nascente, di ambito moderato, che fa riferimento al documento Gentiloni.
In sede storica può dirsi che la contaminazione giolittiana e la collocazione dichiaratamente moderata del movimento messo su dal conte risultano in evidente contrasto con la pretesa di esprimere esigenze solo morali e religiose. Al tempo stesso l’ingresso in politica dei cattolici è un fatto positivo per lo stato unitario. Lo stesso può dirsi del successo riscosso dai candidati cattolici. Cominciarono lì le divisioni in politica dei cattolici, che tra l’altro segneranno la fine della Democrazia Cristiana di grandi come Sturzo Moro e Fanfani. E’ facile stare insieme per adorare un Dio unico; impossibile ripetersi nella politica, che fortunatamente non ha una verità unica.
Questo articolo vine pubblicato anche su Oggi7-America Oggi