Lo Stato piú giovane delle Nazioni Unite, l’appena nato Sud Sudan, che la scorsa estate ha festeggiato nella sua capitale, Juba, la nascita e l’indipendenza dal Sudan, sta vivendo una crisi con scontri etnici drammatici che qui all’ONU stanno riportando alla memoria il genocidio del ’94 in Rwanda. E come allora, anche nel Sud Sudan c’è una forza di pace delle Nazioni Unite, l’UNMISS, che, a corto di uomini e mezzi, non sempre riesce ad evitare i massacri.
La scorsa settimana, circa seimila giovani armati, appartenenti al gruppo etnico sud sudanese dei Lou Nuer, dopo una lunga marcia, hanno attaccato e ucciso centinaia, forse migliaia, soprattutto donne e bambini, di appartenenti alla tribú rivale dei Murle. E le conseguenze dell’attacco potevano essere ben peggiori se alla fine non ci fosse stato un intervento delle truppe governative del Sud Sudan nella cittá di Pibor, nella provincia orientale di Jonglei, aiutate da truppe Onu.
Martedì scorso al Palazzo di Vetro, in teleconferenza, c’è stato un lungo intervento della coordinatrice umanitaria dell’Onu per il Sud Sudan, Lise Grande, che ai giornalisti ha confermato che una forza composta da almeno seimila giovanissimi miliziani armati del gruppo etnico Lou Nuer era stata respinta dalla cittá assediata di Pibor dopo che le truppe governative, sostenute da caschi blu delle Nazioni Unite, sono riuscite a contrattaccare per fermare un loro tentativo di entrare nella cittadina. Grande ha ricostruito le varie fasi che hanno preceduto l’attacco, di cui le Nazioni Unite erano a conoscenza della preparazione almeno da una decina di giorni, quando con i loro aerei di ricognizione avevano scorto la lunga colonna di migliaia di uomini armati della tribú dei Lou Nuer che si dirigeva verso le zone abitate dall’etnia Murle, per poi avvicinarsi pericolosamente nei pressi della cittadina di Pibor.
Grande ha spiegato che a quel punto la missione Onu ha allertato la popolazione di Pibor dell’imminente arrivo delle milizie dei Lou Nuer, allerta che ha provocato la fuga di una gran parte della popolazione che ha lasciato le case per fuggire nella foresta, dove poi si è ritrovata per giorni senza cibo né acqua.
Nei violenti scontri interetnici, che vanno avanti da mesi, Grande ha spiegato che i Lou Nuer avrebbero attaccato il gruppo rivale dei Murle come ritorsione per aver quest’ultimi prima rubato il loro bestiame e a sua volta attaccato e rapito le loro donne. Infatti lo scorso agosto c’era stato un violento attacco questa volta dei Murle contro i Lou Nuer, e anche in questo caso le vittime sarebbero state centinaia. Nel corso degli ultimi combattimenti avvenuti lo scorso week end, è stato anche saccheggiato un ospedale di Medici Senza Frontiere.
Giovedí, alla riunione del Consiglio di Sicurezza -che per il mese di gennaio è presieduto dal Sud Africa-, ha partecipato il capo delle operazioni di pace dell’ONU, Hervé Ladsous -ai tempi delle stragi del Rwanda del ’94, numero due della missione francese all’ONU al tempo impegnato nelle riunioni del Consiglio di Sicurezza che fallirono miseramente nel tentativo di riuscire a proteggere la popolazione di etnia tutsi dal genocidio.
Ladsous, nelle vesti di primo responsabile delle operazioni di pace dell’ONU, ha informato il Consiglio di Sicurezza su quello che stava avvenendo nel Sud del Sudan e ai giornalisti ha detto che la situazione sul terreno resta drammatica e permane il rischio di nuovi scontri etnici.
Vi è il dubbio che l’avvertimento che la missione Onu ha dato alla popolazione dell’arrivo delle milizie abbia peggiorato la situazione perché migliaia di civili di etnia Murle sarebbero fuggiti nella foresta dove sarebbero rimasti indifesi, mentre coloro che erano rimasti in cittá, sotto la protezione dei soldati governativi e dei caschi blu, si sarebbero salvati dalle violenze.
“Noi non diciamo alla gente di fuggire, l’avvertiamo solo del pericolo. Poi la decisione sta a loro” ha affermato Ladsous, lasciando a molti osservatori la sensazione che qualcosa continui a non funzionare nella strategia di protezione dei civili da parte dell’ONU.
“Facciamo quello che possiamo con quello che abbiamo”, ha detto il capo delle operazioni di pace dell’ONU pressato dai giornalisti. In effetti, per stessa ammissione dell’ONU, da almeno dieci giorni si sapeva che quella milizia di seimila uomini armati avrebbe attaccato, ma i caschi blu, dopo aver scatenato il panico e provocato la fuga, hanno protetto poi solo gli abitanti rimasti in città.
Le condizioni dei civili di etnia Murle, dopo giorni trascorsi nella foresta, sarebbero estremamente difficili e molti bambini sarebbero tornati in città senza i loro genitori, mentre altri genitori tornati in città sono alla ricerca di bambini che invece risultano dispersi nella foresta.
Il governo di Juba difronte a questi attacchi etnici appare debolissimo. Il Presidente sud sudanese Salva Kiir Mayardit avrebbe assicurato l’invio di rinforzi per difendere la popolazione civile della regione di Jongley.
Resta da vedere se le Nazioni Unite, e soprattutto i Paesi del Consiglio di Sicurezza, sapranno muoversi in tempo per evitare ulteriori massacri.
Una precedente versione di questo articolo è stata pubblicata sull’appzine L’INDRO ed è disponibile su www.lindro.it/