Si chiamava Shireen Abu Akleh, era una giornalista di Al Jazeera ed è morta dopo essere stata colpita alla testa durante uno scontro fra i miliziani palestinesi e l’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania.
“Uccisa a sangue freddo”: così annuncia la notizia la stessa emittente con sede in Qatar, che accusa senza mezzi termini l’esercito israeliano appoggiata anche dal presidente della Palestina Abu Mazen, secondo cui il governo israeliano è “pienamente responsabile di questo atroce crimine”.
Da Israele, il Premier Naftali Bennett replica immediatamente, respingendo le parole di Mazen e dichiarando che “Il presidente dell’Anp – l’Autorità nazionale palestinese presieduta da Mahmoud Abbas – lancia accuse contro Israele senza alcuna prova. Secondo i dati di cui disponiamo al momento, ci sono buone probabilità che i palestinesi armati, che hanno sparato selvaggiamente, siano responsabili della sfortunata morte della giornalista”.

Uno scambio di accuse tra due nemici storici, tornati ad avere gli occhi del mondo puntati addosso.
Di mezzo, infatti, ci finiscono anche gli Stati Uniti, che tramite il loro ambasciatore in Israele Tom Nides hanno reso noto la cittadinanza americana di Shireen Abu Akleh.
“Sono molto rattristato – ha scritto su Twitter il diplomatico – nell’apprendere la morte della giornalista palestino-americana. Sollecito un’estesa indagine sulle circostanze della sua morte e sul ferimento di almeno un altro giornalista oggi a Jenin”.
Indagine poi chiesta anche dalla rappresentanza dell’Unione Europea, che spinge per un’azione indipendente sul dramma in modo “da portare i responsabili davanti la giustizia”, e da un gruppo di Paesi arabi all’Onu, annunciata dall’ambasciatore palestinese Riyad Mansour.
“Il gruppo arabo ha adottato una dichiarazione che condanna con la massima fermezza questo atto criminale da parte delle autorità di occupazione israeliane e richiede un’indagine internazionale indipendente su questo crimine”. La richiesta compare anche in tre lettere inviate al segretario generale, al Consiglio di Sicurezza e al presidente dell’Assemblea Generale.

Una testimonianza diretta dell’accaduto arriva da un altro giornalista palestinese, Ali al Samoudi, rimasto ferito alla schiena ma attualmente in condizioni stabili. Firma del quotidiano Al Quds con sede a Gerusalemme, Samoudi ha rivelato al quotidiano israeliano Haaretz che lui e Abu Akleh, al momento dell’attacco, indossavano i loro giubbotti con la scritta “Press”.
Le forze israeliane erano impegnate in un’operazione nel campo profughi di Jenin per arrestare “sospetti terroristi” e, durante il raid, i militanti palestinesi hanno aperto il fuoco e lanciato ordigni esplosivi contro i soldati, che hanno risposto al fuoco.
”Una cara amica, che ha perso la vita nell’ennesimo crimine commesso da Israele”. Questo il ricordo dell’ambasciatrice dell’Autorità nazionale palestinese in Italia, Abeer Odeh.
La morte di Shireen è infatti solo l’ultimo dei decessi dei reporter avvenuti negli ultimi mesi. Noti al grande pubblico sono quelli in Ucraina, come il caso di Brent Renaud, colpito ad Irpin, nei sobborghi di Kiev, dalle forze russe.
Ma anche in Messico la situazione è drammatica. Dopo l’omicidio registrato la scorsa settimana di Luis Enrique Ramìrez Ramos, nelle scorse ore è toccato a Yellenia Mollinedo Falconi e alla sua cameramen Johana Garcìa rimanere vittima della criminalità. Yellenia era la direttrice del giornale El Veraz e Johana era una sua stretta collaboratrice. Le due sono state colpite da colpi di arma da fuoco mentre si trovavano in macchina, in un parcheggio adiacente ad un negozio a Veracruz.
Una moria di professionisti dell’informazione che ostacola il lavoro dei reporter e mina la libertà di stampa.
Il titolo di un giornale porta spesso più risultati di una bomba e questo, chi gestisce il potere, lo sa bene. Mettere a tacere un giornalista può assicurare a molti l’impunità tanto bramata.