Il grave momento che stiamo vivendo trova una spiegazione nelle parole del sociologo Evgenij Morozov:
“Proclamare che le società sono entrate in una nuova era e hanno sposato una nuova economia non rende la natura umana automaticamente più malleabile, né conduce necessariamente al rispetto universale dei valori umanistici. La gente va ancora a caccia di potere e riconoscimento”.
Riprendo questa citazione di Morozov a supporto di un principio che ha accompagnato la storia dell’uomo ed è quello connesso alla caccia e gestione del potere. Oggi, si cerca di ottenere maggiore potere con l’aiuto della disinformazione. Infatti, per raggiungere questo obiettivo gli individui hanno utilizzato gli strumenti di volta in volta disponibili costruendo propaganda e manipolando quanto utile allo scopo.
I casi che si potrebbero citare sono davvero tantissimi e durante questi due anni, travolti dalla pandemia, abbiamo assistito al proliferare delle fake news.
Adesso, così come sottolinea Huffingtonpost, in un articolo di Pietro Salvatori, la battaglia sull’informazione si è spostata dalla pandemia alla guerra. Sì, perché il conflitto tra Russia e Ucraina ci sta mostrando gli altri volti della disinformazione: false ricostruzioni, video montati ad arte, siti e account social che smentiscono gli eventi e molto altro ancora. Una propaganda agguerrita che mira a distorcere ogni notizia e a confondere il mondo.
Decine di siti web che pubblicano disinformazione sulla guerra in Ucraina continuano a ricevere entrate pubblicitarie da Google o da altre aziende che gestiscono pubblicità. Tra questi, ci sono siti web che nascondono le loro fonti di finanziamento e controllo, registrati in paesi come Cipro e di proprietà di soci in affari di Putin. Tali siti fanno parte del più ampio ecosistema di disinformazione russa, in cui le bufale hanno spesso origine sui siti di proprietà del Cremlino e vengono poi diffuse da una rete di siti che le rilanciano.
Di contro ci sono i giovani, la Generazione Z, che cercano di far conoscere a tutti quello che sta accadendo. Di fatto quella in Ucraina è la prima guerra al mondo in cui i social media hanno un’enorme pervasività. Le piattaforme sono utilizzate ogni giorno dagli adolescenti che raccontano ciò che stanno vivendo. Valeria (@Valerisssh) ha vent’anni ed è una TikToker ucraina che documenta la guerra sui social: gli edifici distrutti, le vite perdute, i supermercati vuoti, la fame e la disperazione della gente.
Il modello classico del giornalismo, fondato su determinati generi e sezioni, è in costante cambiamento. In questa continua evoluzione trovano spazio le bad news che colpiscono per la loro straordinarietà, ma nel lungo periodo non costruiscono una relazione con il lettore. Le good news, invece, sicuramente non sono sempre sensazionali, ma possono costituire condivisione e partecipazione da parte del lettore, perché toccano temi vicini a lui.
Attualmente, il trend dominante è quello del prevalere delle bad news, perché nell’iper-circolazione delle notizie è molto più probabile che si fissino nella memoria eventi negativi e di violenza per l’impatto che le immagini hanno su di noi.
La disinformazione appare come un prodotto conseguenza diretta dell’affermarsi dell’era della post modernità, costruita sul concetto di società mediatizzata nella quale le post verità prendono il soppravvento, facendo così emergere la mis-information e la dis-information, intesa quest’ultima come l’uso strumentale e manipolatorio delle informazioni per definire una specifica narrazione e visione del mondo.
Un sistema che appare sempre di più costruito sulla polarizzazione delle opinioni, che ha sua volta trae forza dal concetto di confirmation bias, in funzione del quale l’attenzione degli individui si focalizza solo sui fatti che sono in linea con le proprie convinzioni, escludendo di conseguenza tutte le posizioni che sono in contrasto e alternative rispetto al proprio sistema di valori.
Risulta chiaro che il radicarsi di queste pratiche nello sviluppo dei flussi informativi e comunicativi, tende a distorcere in modo profondo i meccanismi di costruzione dell’opinione pubblica e della conoscenza.
L’incapacità di riconoscere il falso ci mostra come nel sistema si ravvisi una mancanza difese immunitarie che porta alla misinformation, ossia la tendenza a diffondere inconsapevolmente fake news. Lo sfruttamento delle dinamiche connesse alla “filter bubble” ha reso possibile creare delle notizie seguendo un framing ben definito che stimoli l’utente emotivamente .
Le notizie false e la disinformazione sono caratterizzati da un unico filo conduttore, parlare al proprio pubblico con l’unico obiettivo di rafforzare la propria posizione cosi come sta facendo la propaganda filorussa.
Allora bisogna che si attui il “fact checking” ovvero il controllo delle fonti e la comparazione di ogni elemento. Non solo, ma bisogna mettere in pratica il debunking per smascherare bufale, affermazioni false, esagerate o diffamatorie, voci dubbie, pretenziose o anti-scientifiche. Il mondo dei social favorisce la velocità e la crossmedialità delle fake news che ledono la serenità degli utenti.
I dati che emergono dalla ricerca condotta nel 2020 dall’Osservatorio nazionale sulla comunicazione digitale di PA Social e Istituto Piepoli, evidenzia come secondo cui l’80% degli italiani considera molto utile l’utilizzo di social network e chat per comunicare con le istituzioni e ricevere informazioni e servizi.
Recenti ricerche dimostrano che anche se ai membri dei gruppi “politici” sui social spieghi che quella diffusa in rete è una bufala e ne porti le prove, non ci credono e continuano a farla girare e commentarla, come se fosse una verità alternativa.
Questo “effetto di alterata informazione” si basa sul fatto che in presenza di molte notizie il lettore, generalmente, non le confronta in maniera critica, ma sceglie o l’ultima in ordine di tempo, o la più semplice o quella che l’ha colpito di più.
Un meccanismo inconsapevole che altera i nostri ricordi e che è legato a limiti nel funzionamento dei nostri processi cognitivi, si somma al cosiddetto egosurfing, la tendenza a ricercare nelle notizie la conferma di un’opinione che il lettore ha già.

La sfida del giornalismo si concretizza in due modi: nella capacità di andare oltre, di utilizzare l’ascolto per scovare quelle notizie che non sono ancora entrate nel flusso social; nel far crescere la propria professionalità avendo consapevolezza che paradossalmente alla velocità di fruizione delle informazione ora si affianca una maggiore durata nel tempo.
Il giornalista, oltre ad avere un ruolo costruttivo, ha un compito sociale che è anche quello di smontare le notizie false. Il giornalismo deve riacquistare autorevolezza per combattere il qualunquismo e la propaganda.
Tra gli addetti ai lavori il dibattito sul rapporto tra etica e comunicazione è aperto e ha acceso la luce su un aspetto oggi fondamentale: la comunicazione assume un grande rilievo nel processo di crescita della società.
Proprio su questo argomento il presidente del CNOG Carlo Bartoli, intervenendo a Bari al premio di giornalismo Michele Campione, si è espresso su un’immagine che sta facendo il giro del web:
“La pubblicazione della foto della bambina ucraina che imbraccia il fucile mentre succhia un lecca lecca è stata utilizzata in maniera massiccia dai media italiani. Questa scelta, prima ancora di violare la Carta di Treviso sulla protezione dei minori, pone serissimi problemi etici ai direttori che hanno deciso di utilizzarla senza valutare gli effetti della pubblicazione di una foto del genere. Se i social media diventano la fonte acriticamente utilizzata per attingere non notizie ma foto costruite, il giornalismo rischia seriamente di smarrire la propria funzione. Occorre chiedersi se abbia senso una scelta del genere in un contesto nel quale morte, dolore e sofferenza travolgono la vita di centinaia di migliaia di persone. La guerra è una tragedia che il giornalismo ha il dovere di raccontare nella sua crudezza. Ma che senso ha raccogliere dai social, che sono fonte in quantità industriale di fake news e disinformazione, immagini costruite come in un set fotografico? Oltretutto senza pensare alle conseguenze che la divulgazione di immagini che coinvolgono i minori possono ingenerare. Il giornalismo deve fare un’attenta riflessione sul tema e lasciare fake news e strumentalizzazione dei minori ai social. L’informazione è un’altra cosa”.
La comunicazione deve vivere all’interno della dimensione valoriale che deve essere ricca di contenuti, se si appiattisce la dimensione del cittadino a quella di semplice consumatore non si opera in una prospettiva di crescita, ma in una logica di breve periodo tesa a generare passività nell’ interlocutore, il quale non stimolato tenderà a non sentirsi responsabile e a vivere solo la dimensione privata, perdendo la capacità di sentirsi parte di una comunità e dunque di agire in termini solidali nei confronti degli altri.
Purtroppo, anche quella contro la disinformazione è una battaglia difficile da combattere, ma possiamo ancora vincerla operando con onestà e buon senso.