Promosso (quasi) a pieni voti: è questo il bilancio del rapporto tra Biden e stampa durante il suo primo anno di presidenza. A sostenerlo è il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) in un report scritto da Leonard Downie Jr. e intitolato significativamente “Night and day“. Notte e giorno – ad indicare proprio il netto cambiamento di forma e sostanza rispetto alla precedente amministrazione repubblicana di Donald Trump.
Secondo la ONG con sede a New York, i primi 365 giorni di Biden alla Casa Bianca hanno determinato “un ribaltamento quasi completo dell’inusitata ostilità pervasiva e dannosa dell’amministrazione Trump, che ha seriamente danneggiato la credibilità dei media e ha spesso diffuso disinformazione in tutto il mondo.” Al contrario, Biden, la sua portavoce Jen Psaki e i funzionari dell’amministrazione “hanno ripetutamente sottolineato l’importanza di lavorare con i media per tenere informati i cittadini americani.”
Ciò premesso, il report non ha lesinato qualche critica all’attuale commander-in-chief. In particolare, le decine di giornalisti, osservatori accademici e attivisti consultati dal CPJ hanno rimproverato la scarsa disponibilità di Biden a confrontarsi personalmente con i reporters. Rispetto a Trump e Obama, l’ex senatore per il Delaware ha rilasciato infatti molte meno conferenze stampa e interviste ai media, preferendo mandare avanti la sua portavoce Jen Psaki o altri funzionari della Casa Bianca. Un esempio? Sono 22 le interviste di Biden lungo tutto il 2021; nei loro primi anni di presidenza, Trump e Obama ne avevano rilasciate rispettivamente 92 e 150.

Secondo la politologa Martha Kumar, la mossa potrebbe far parte di una strategia ben precisa per evitargli gaffes: “Hanno cercato di ‘abbottonarlo’ (perché) è più probabile che il presidente commetta un errore verso la fine di una conferenza stampa.” Di conseguenza, la portavoce Psaki si è trasformata in una sorta di vice-presidente con delega ai rapporti con la stampa, con maggiore visibilità mediatica persino rispetto alla vice effettiva Kamala Harris. Se Biden si limita quasi sempre a discorsi preconfezionati con al massimo un paio di brevi risposte alle domande dei giornalisti (Trump e Obama rispondevano a circa una decina), Psaki infatti appare quotidianamente alla James S. Brady Room della Casa Bianca per interloquire con la stampa.
Un’altra questione sensibile riguarda la modalità di accesso agli alti funzionari dell’amministrazione, che il più delle volte possono essere citati solo a condizione di anonimato e col preventivo placet di Casa Bianca e dipartimenti governativi (c.d. deep background) – a meno che non sia l’ufficio stampa della Casa Bianca a consentire la pubblicazione del nominativo. “Sulle questioni che riguardano le relazioni tradizionali tra la Casa Bianca e la stampa, (Biden) è un presidente vecchia scuola”, ha affermato Steve Coll, decano della scuola di giornalismo della Columbia University. Un approccio molto simile a quello di Obama, mentre nel quadriennio di governo GOP l’accesso agli alti funzionari era diventato un tabù. “Come l’amministrazione Obama, il servizio stampa di Biden vuole avere il controllo della storia, anche se non è così polemico come l’amministrazione Obama, il cui servizio stampa era molto permaloso”, ha rivelato Jonathan Karl di ABC News.

Una maggiore apertura complessiva verso i media è stata riscontrata anche nei vari ministeri, dal Dipartimento di Stato (dove Antony Blinken ha abbandonato la retorica belligerante di Mike Pompeo) al Pentagono (dove Lloyd Austin ha proseguito il percorso di collaborazione con i media già sposato dal repubblicano Mark Esper), fino all’Agenzia per la protezione dell’ambiente (che ha ri-pubblicato sul proprio sito Web il materiale informativo sul riscaldamento climatico fatto togliere da Trump).
Unica nota stonata riguarda il Dipartimento della sicurezza interna (DHS). Paradossalmente, “il DHS di Trump era meno disciplinato, quindi era più facile trovare fonti e ottenere l’accesso al confine”, malgrado “facessero disinformazione e si vendicassero per le storie che non gli piacevano.” A riferirlo è il giornalista del Washington Post Nick Miroff. Con Biden, invece, il DHS “ha irrigidito l’accesso alle informazioni e si è impegnato in un controllo più professionale dei messaggi. Il che lascia i giornalisti in una posizione di svantaggio nell’informare il pubblico” su ciò che accade al confine meridionale e sul contenimento dei flussi migratori.
Tra gli altri aspetti affrontati dal report del CPJ, c’è anche quello del sequestro dei tabulati telefonici e di posta elettronica dei giornalisti da parte del Dipartimento di Giustizia nelle precedenti amministrazioni. Lo scorso 19 luglio, il procuratore generale Merrick Garland ha ordinato ai procuratori federali di non implementare la misura, a meno di casi eccezionali e circostanziati legati alla sicurezza nazionale. Una mossa applaudita dalla comunità mediatica. “L’amministrazione Biden non si sta allontanando solo da quello che faceva Trump, ma anche da quello che faceva Obama,” ha detto Trevor Timm, direttore esecutivo della Freedom of the Press Foundation. Che però ha anche aggiunto che “finora sono solo parole”, che vanno “scritte nelle linee guida del Dipartimento di Giustizia” e convertite in legge dal Congresso. Durante gli otto anni di governo Obama erano stati dieci i dipendenti e appaltatori del governo processati per fuga di informazioni classificate trapelate sui media, e altri otto si sono aggiunti durante il quadriennio Trump.

La comunità giornalistica USA ha poi invitato il presidente Biden a rinunciare all’estradizione del fondatore di WikiLeaks Julian Assange (richiesta dal DOJ sotto Trump dopo una fase investigativa sotto Obama), ritenendolo un grave pericolo per la libertà di stampa. Al contempo, i giornalisti hanno espresso soddisfazione per il pugno duro della Casa Bianca nel perseguire i responsabili di violenze contro i giornalisti, moltiplicatesi dopo l’assedio al Campidoglio del 6 gennaio 2021.
“Con almeno altri tre anni di presidenza Biden, c’è ancora molto da fare per mitigare alcuni dei danni duraturi e perduranti inferti ai media da Trump, dalla sua amministrazione e dai suoi seguaci dentro e fuori la politica e i media,” si legge nella conclusione del CPJ. “Il modo in cui l’amministrazione Biden risponderà a queste sfide a parole e nei fatti contribuirà a determinare il futuro del ruolo di una stampa libera in un momento turbolento.”