Per la Voce di New York domenica è stato un giorno speciale. Ha festeggiato sia la Liberazione che il suo ottavo compleanno, che cadono proprio nello stesso giorno.
Per celebrare entrambe le ricorrenze, nove giornalisti del panorama italiano e internazionale, moderati dal direttore Stefano Vaccara, hanno discusso dello stato della libertà d’informazione e d’espressione in Italia, negli Stati Uniti e nel mondo, con una diretta andata in onda sulla pagina Facebook della VNY.

Il primo a intervenire è stato Sebastian Rotella, firma di punta del giornale online ProPublica, che da ormai 10 anni indica il futuro del giornalismo d’inchiesta. Rotella, inviato al confine col Messico, in centro e Sudamerica, Medio Oriente, Europa e in altre regioni, ha vissuto in carriera situazioni estremamente difficili e pericolose e, avendo lavorato accanto ai giornalisti in “trincea”, si è fatto un’idea ben precisa del futuro della libertà di stampa nel mondo. “La sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei giornalisti – dice citando Sciascia – mi preoccupano le minacce che arrivano ai giornalisti da alcuni Paesi. Un esempio è la Cina, che ha silenziato gli organi di informazione che provavano a divulgare le informazioni sul coronavirus. Gli anni con Trump sono stati difficili, ma comparati con la situazione che vivono ad esempio i giornalisti sudamericani è una difficoltà relativa”.

È toccato poi a Paolo Borrometi, vicedirettore dell’Agenzia Giornalistica Italia, direttore di LaSpia.it e Presidente di Articolo 21, che per le sue inchieste sulla mafia in Sicilia vive sotto scorta. “Oggi abbiamo un’informazione che risente troppo della politica e delle simpatie e troppo poco dell’oggettività. Io non immaginavo di vivere quello che ho vissuto, ho più di 45 processi in corso per minacce di ogni tipo, ma lo Stato non può arretrare. Il giornalismo è fondamentale, perché svela trame in anticipo che solo anni dopo vengono scoperte dalle forze dell’ordine”.

A Beppe Giulietti, Presidente della Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI), viene chiesto se ci siano nuovi dati dal Ministero degli Interni sulla situazione di pericolo in cui operano i giornalisti in Italia e lui, amareggiato, risponde che “L’Italia nell’ultima classifica per la libertà di stampa è al 41° posto. Il rapporto indica le criticità italiane e tra queste spicca il numero dei cronisti sotto scorta, che sono 22: è un dato grave. Il 3 maggio sarà la giornata ONU per la libertà di informazione e noi andremo dal Presidente della Camera per segnalare un dossier specifico su tutte le situazioni di minaccia registrate dai giornalisti. Se non si votano le leggi per far capire che chi colpisce un cronista colpisce un cittadino, non andremo avanti”.

Federica Angeli, esperta di cronaca nera e giudiziaria per La Repubblica, che per le sue inchieste sulla mafia romana vive sotto scorta dal luglio del 2013, ammette di pagare “un prezzo molto alto per le indagini che faccio e insieme a me lo pagano anche i miei figli, che sono gli unici bambini in tutta Europa ad avere una scorta. Però posso dire che ne è valsa la pena e mi sento di dire che il nostro mestiere rappresenti ancora una forza e questo è molto chiaro alla politica, che cerca ancora di imbavagliarlo. Per questo sono molto orgogliosa di essere giornalista e di fare quello che faccio”.

Tiziana Ferrario, columnist de La Voce di New York e inviata di guerra per la RAI in Paesi difficili, parla dell’Afghanistan sottolineando che sia impossibile “fare finta di niente, perché in posti come quello fare il giornalista equivale a fare una scommessa. Se tu racconti di alcuni scontri e dai il numero dei morti talebani, a casa ricevi minacce. Ma non solo tu, tutta la tua famiglia e i tuoi parenti. Minacce che vengono messe in atto, perchè non si deve sapere che i talebani hanno delle perdite. In Afghanistan sarà un ritiro complesso. E abbiamo già capito che i giornalisti ne pagheranno le conseguenze”.

Antonio Di Bella, corrispondente RAI dagli Stati Uniti, Tg3 e Rai News 24, è stato testimone diretto dell’aggressione a Capitol Hill e proprio ricordando quel momento confessa che “mai mi sarei aspettato che le cose sarebbero andate così. Oggi credo ci sia un problema diffuso: la caccia al giornalista. Non c’è più quell’idea che il giornalista sia il cane da guardia che controlla il potere. Metà del Paese, negli USA, respinge in blocco tutte le tv e tutti i giornali ed è una preoccupazione profonda. Non c’è più un dibattitto tra giornali, ma sono entrate nel panorama verità alternative, come ad esempio la negazione del covid, che proviene da informazioni nate sui social”.

Giampaolo Pioli, corrispondente dagli USA del Quotidiano Nazionale e Presidente di VNY Media Corp, racconta la situazione dei giornalisti che svolgono il loro mestiere in Paesi dove la libertà di stampa non esiste e spiega come “Adesso i giornalisti che lavorano in uno Stato con poca libertà di stampa vengono bollati come “agenti stranieri” e quindi sottoposti a un controllo che non corrisponde più a quello pensato per i giornalisti, ma per emissari del governo. Il controllo è perciò totale e ogni minima azione può essere buona per far scattare una punizione”.
Massimo Jaus, cronista politico de La Voce di New York, ex vice direttore di America Oggi e corrispondente dagli USA de Il Mattino, data la sua esperienza cinquantennale negli Stati Uniti parla di come il giornalismo oltreoceano sia cambiato con il tempo. “Oggi viviamo in un contesto informativo ben differente. La democrazia è un insieme di fattori e la libertà di espressione è uno di questi. Quando la libertà di espressione è manipolata, cade di conseguenza anche la democrazia. Qui in America i fatti alternativi vengono ormai creati in modo subdolo, chiudendo i microfoni durante le conferenze stampa, intimidendo i giornalisti e bollando come false le loro notizie”.

Infine Mario Platero, editorialista di Repubblica, già capo della redazione statunitense del Il Sole 24 Ore e collaboratore de La Voce di New York, ripercorre il rapporto tra stampa e potere e ricorda come “qualunque presidente americano ha avuto rapporti di fair play con i giornalisti. Anche Obama non andava d’accordo con i giornalisti alla Casa Bianca, ma lui non si è mai permesso di essere così direttamente aggressivo come Trump. Trump è riuscito in qualche modo a portare una larga parte di popolazione a schierarsi contro l’informazione”.