Infotainment: neologismo inglese che fotografa in un ibrido la comunicazione moderna, anzi, l’informazione giornalistica fusa (o subordinata?) con l’intrattenimento. Una moderna forma di comunicazione che mette in scena lo spettacolo della vita e della morte, e la sofferenza ad esse collegata. Un neologismo che ha istituzionalizzato la spettacolarizzazione del dramma insieme a un giornalismo invadente, irrispettoso, e causato una sorta di decadimento dei contenuti della stessa informazione. Il reality del dolore, lo strazio trasformato in storie di intrattenimento per un pubblico da sempre attirato dalle sensational news, dalle tragedie degli altri, e sottolineo quelle degli altri. Bourdieu, influente filosofo francese, ricordava che “Sangue, sesso, melodramma e crimine sono sempre stati grandi venditori” .
Celebre il motto “bad news are good news”, ovverosia “le cattive notizie sono buone notizie, quelle che fanno audience, per intenderci.
Oggi non si vende più la notizia, ma una narrazione spesso semplificatoria e comprensibile alla massa, a chi non ha istruzione o, semplicemente, a chi non ha voglia di approfondire, secondo la pratica del ‘dumbing down’, ‘appiattimento culturale’, ormai presente in ogni settore, dalla Letteratura, al Cinema, alla Cultura etc. e, ovviamente, in primo piano nella Comunicazione, soprattutto quella visiva, in cui tale appiattimento unisce e impera. Piani fissi sulle lacrime e sul dolore di persone sconosciute, perché quello che bisogna vendere non è più il fatto, ma la sua costruzione (newsmaking), una narrazione supportata da fibrillanti dirette televisive e web, e ripetuti articoli giornalistici con titoli e immagini ad effetto per conferire loro autorevolezza. “L’ho visto in televisione” (e non “l’ho sentito”), “l’ho visto sul giornale” (e non “l’ho letto”) a conferma del potere della comunicazione visuale della notizia narrata che coinvolge lo spettatore nel cosiddetto “sentimento di esperienza immediatamente condivisa” citato dal sociologo israeliano Elihu Katz.
Tutto contornato ancora una volta da un ibrido, l’emotainment’, ovverosia da un forte contenuto emotivo, enfatizzato da pomeriggi televisivi e salotti serali con personaggi in cerca d’autore, durante i quali gli eventi vengono trasformati in narrazioni senza lieto fine.
Le logiche di mercato, purtroppo, hanno per lo più cancellato quella storica ‘mission’ del giornalismo posto a guardia della democrazia. “Il cane da guardia della democrazia”, per essere precisi.
Non c’è tempo per soffermarsi sui risvolti umani di una vicenda, né sul come le parole parlate e scritte potrebbero inficiare la genuinità dello stesso fatto. Tutto scorre velocemente, anche il dolore. Ma quello che appare più grave è che non c’è più tempo per la compassione, se mai ci fosse stata. Sarebbe solo una zavorra che rallenterebbe gli introiti pubblicitari. Al contrario, vale il mantra è “Tell all, show all”, “Racconta tutto, mostra tutto”.
The Truman Show è in onda! E la notizia non è più protagonista dello show, lo diventa invece chi, quella notizia, la divulga.
Il giornalismo sensazionalistico in Italia venne alla luce con tutta probabilità nel 1961, sul Monte Bianco, con tre alpinisti bloccati tra i ghiacciai. La cronaca televisiva del Belpaese, nata solo da qualche anno, portò per la prima volta il dolore altrui nelle case degli italiani, i dettagli personali dei malcapitati e persino delle operazioni di soccorso, tanto che uno dei superstiti, Walter Bonatti, accusò Emilio Fede di averle ostacolate. “Posso assicurare che la violenza morale che l’‘uomo civile’ sa infliggere, non è per niente inferiore a qualsiasi altra violenza fisica. Questo io l’ho provato e pagato fino in fondo” scriverà Bonatti.
Ma il dramma umano rimasto nella memoria collettiva, quello che più di tutti ha cambiato il modo di fare informazione (molto tempo prima che professionisti dell’informazione diventassero intrattenitori e ‘facessero scuola’) accadde nel giugno del 1981, lo stesso anno dell’attentato a Papa Wojtyla. Un bambino di sei anni finisce in un pozzo a Vermicino, e la sua lenta agonia diventa un eccezionale evento mediatico. Una tragedia che passa attraverso l’informazione giornalistica e diventa fiction. Parole a fiumi, reti unificate, 18 ore di diretta televisiva, 32 milioni di telespettatori attaccati allo schermo notte e giorno, 32 milioni di italiani in un buco nero insieme al piccolo Alfredino Rampi. 60 ore di reality show e come sottofondo rumori di trivelle che scavavano e voci dei soccorritori dai walkie talkie, intervallati dalla pubblicità, dai quiz televisivi, dai programmi per bambini!
Sul luogo della tragedia anche l’allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, mentre la campagna limitrofe si trasformava in un insolito raduno con venditori di bibite e panini e una folla immensa che non lasciava passare neppure l’ambulanza. Il primo tentativo di infotainment che sfruttava la curiosità e l’impressionabilità della gente.
Qualcuno ha detto che il dolore può essere esorcizzato solo se condiviso, ed effettivamente quel dolore universale unì l’Italia da nord a sud, ma la condivisione ci trasformò (e ci trasforma ancora) inevitabilmente in detective. E giudici. Ci furono insinuazioni sul padre di Alfredino, e persino sulla ‘freddezza’ della mamma. Ci sono sempre insinuazioni gratuite e giudizi non pertinenti nelle tragedie che non viviamo sulla nostra pelle. La stessa condivisione ci muta ogni volta in turisti macabri. Cogne, Avetrana, Erba, Garlasco, lo scoglio in cui terminò la corsa della nave Concordia diventano luoghi di ‘gita’. Proprio perché il sensazionalismo con cui viene raccontato un evento drammatico lo deforma, lo estrapola dalla sua reale tragicità, lo riduce a mera fiction allontanandone ogni aspetto umano. Con il supporto attuale delle nuove tecnologie informatiche diventa speculazione sulla disperazione delle famiglie. Ci si dimentica spesso che i social sono voragini in cui le parole sprofondano per tornare a galla in bites nei momenti meno opportuni, magari davanti agli occhi di un padre che piange.
Il filosofo e scrittore tedesco Walter Benjamin disse che “l’arte del narrare è un’attività antica e artigianale, etica e comunitaria; colui che narra è un saggio che non mira ad intrattenere bensì ad insegnare, e che proprio per questo ha un ruolo sociale”. Un ruolo sociale che il giornalismo ha inevitabilmente perso. Senza compromettere il diritto all’informazione, bisognerebbe tornare ad avere il senso della misura e ricordare, usando le parole del giornalista Giuseppe Mazzarino, che “se vogliamo fare i romanzieri o gli sceneggiatori di un film horror, non dobbiamo farlo sui giornali, di carta o elettronici, e nei telegiornali. Almeno noi”.