E’ il 22 marzo del 1986. A Voghera, la città di Alberto Arbasino, qualcuno riesce a realizzare un’impresa: nella sua cella, pur se sorvegliato a vista (così almeno si dice), un detenuto beve il suo solito caffè. Solo che quella mattina il caffè è corretto: al cianuro. Si chiama Michele Sindona, il detenuto: sulle spalle una condanna prima a dodici anni per frode; poi l’ergastolo, quale mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, che da commissario liquidatore per incarico di Bankitalia ricostruisce e svela le infinite trame del banchiere di Patti; l’uomo che Giulio Andreotti definisce “salvatore della lira”. Il caso viene archiviato come suicidio. Possiamo immaginarla, la scena: “Superiore (a quel tempo gli agenti di polizia penitenziaria venivano chiamati così), per favore, domattina con il mio solito caffè anche una pillola di cianuro, che mi sono stancato di vivere, voglio morire…”.
Fabio Isman, autore di un agile e godibile (per quello che l’argomento consente) “Andare per l’Italia degli intrighi”, annota: “C’era già stata un’analoga bevanda carceraria, ma diversa, nel 1954: per Gaspare Pisciotta, il braccio destro di Salvatore Giuliano, che doveva tacere sul suo omicidio e sulla strage a Portella delle Ginestre…”. Anche Pisciotta sorvegliato a vista; in cella con lui, solo il padre, era lui a preparare da mangiare per scongiurare “scherzi”. Eppure…
Infiniti, insomma, i modi per mettere a tacere qualcuno che può dire una parola di troppo; che troppo ha visto, e che oltrepassa la sottile soglia oltre la quale “lo zio non è più contento…e piglia collera…”. Tanti ce ne sono di “zii” così: non solo in Sicilia, Campania, Calabria. E’ pieno il mondo. Ce ne sono anche a Mosca. Ogni tanto, “dyadya iz kremlya zlitsya”. Magari lo “zio” cambia nome; ma la collera è sempre quella; e la si placa nello stesso modo, ovunque.
Londra, 7 settembre 1978. Georgi Markov, scrittore bulgaro fuggito nel 1969 dal regime comunista di Todor Zhikov, come ogni mattina attraversa il ponte di Waterloo sul Tamigi, e raggiunge la fermata dell’autobus per andare al lavoro, giornalista della “BBC”, di “Radio Free Europe” e di “Deutsche Welle”. Quella mattina sente come una leggera puntura al polpaccio, non ci fa caso, all’inizio. Poi sì, eccome: è la punta di un ombrello con la quale gli è stata iniettata una micro capsula contenente ricina, un potentissimo veleno. Quattro giorni di agonia, l’11 settembre Markov muore. Si sospettano i servizi segreti bulgari d’intesa con il KGB sovietico. La morte di Markov è tutt’ora un mistero.
Mosca, 3 luglio 2003. Yuri Shchekocikhin, giornalista e deputato è trovato morto; i sintomi sono quelli di una violenza reazione allergica. La documentazione medica sul suo caso non è mai stata resa nota.
San Pietroburgo, 24 settembre del 2004. L’imprenditore Roman Tsepov, legato a filo doppio con Vladimir Putin, muore per avvelenamento da sostanza radioattiva, mai identificata.
Viktor Yushchenko, nel 2004 candidato alle elezioni presidenziali ucraine, viene ricoverato in Austria. E’ vittima di un misterioso avvelenamento da diossina: sostanza probabilmente mescolata nella minestra. I tossicologi accertano nel sangue di Yushechenko una presenza di diossina 6.000 volte superiore alla normalità. Salvato dalla morte, ma con il volto sfigurato, Yushechenko sfida il filo russo Viktor Yanukovych al ballottaggio delle presidenziali il 23 novembre 2004. Vince quest’ultimo, ma le accuse di brogli e le proteste di piazza della ‘rivoluzione arancione’ portano ad una ripetizione del ballottaggio che dà la vittoria a Yushchenko. Sostiene che ad avvelenarlo sono stati tre uomini che erano con lui a cena, poi rifugiati in Russia. Uno di loro era l’ex numero due dei servizi ucraini, Volodymyr Satsyuk: ottiene la cittadinanza russa, tanti saluti. Lo staff di Yushchenko invia una richiesta di informazioni ai quattro laboratori al mondo in grado di produrre quel tipo particolare di diossina. L’unico che non risponde, quando dici la coincidenza, è quello di Mosca.
Londra. Aleksandr Litvinenko, ex agente dei servizi russi dell’FSB, fugge in Regno Unito nel 2000. Accusa i suoi superiori di aver organizzato l’omicidio dell’oligarca Boris Berezovsky. Accusa Putin di essere in mandante del delitto della giornalista Anna Politovskaya. Il 1 novembre 2006 Litvinenko si ammala improvvisamente. Muore il 23 novembre, avvelenato da polonio. La sostanza radioattiva sarebbe stata messa nella sua tazza di té da due russi durante un incontro in un albergo di Londra. Gli inquirenti britannici accusano Andrey Lugovoi, un agente dell’FSB, il servizio segreto russo. Se ne chiede l’estrazione. Da Mosca rispondono con una risata.
Per quel che riguarda la Politovskaya: la giornalista della “Novaya Gazeta” il 1 settembre 2004 subisce un avvelenamento, mentre è a bordo di un aereo. Implacabile, denuncia la repressione in Cecenia e le violazioni dei diritti umani; la chiamano a mediare sulla crisi degli ostaggi a Beslan; a qualcuno la cosa va di traverso: dopo aver bevuto un tè datole a bordo, è preda di un violento malore, perde conoscenza. L’aereo torna indietro, per permettere un suo immediato ricovero. La dinamica non è mai stata chiarita del tutto, comunque la scampa. Meno di due anni dopo, il 7 ottobre del 2006, Anna tuttavia viene trovata morta nell’ascensore del suo palazzo a Mosca, proprio nel giorno del compleanno di Putin. Accanto al corpo vengono trovati una pistola Makarov Pm e quattro bossoli, uno è quello del proiettile che ha colpito la Anna alla testa. Fonti di intelligence riferiscono che la giornalista era su una lista di persone scomode che il Cremlino ha deciso di eliminare, assieme a Alexander Litvinenko e l’oligarca Boris Berezovskij.
5 novembre 2012: Alexander Perepilichnyy muore per presunto attacco cardiaco mentre fa jogging nella sua residenza nel Surrey in Gran Bretagna. Come nel caso dell’ex oligarga Berezovsky, morto suicida nella sua residenza alle porte di Londra, le inchieste sono chiuse con un nulla di fatto e una quantità di dubbi e sospetti. Perepilichnyy è una fonte della Hermitage Capital per ricostruire il riciclaggio di denaro da parte di funzionari russi, gli stessi “schemi” scoperti dall’avvocato della società Sergei Magnitsky, morto in carcere mentre attende di essere processato per le stesse accuse che ha rivolto ai funzionari coinvolti nel malaffare. Nello stomaco di Perepilichnyy vengono trovate tracce di gelsemio, pianta rara e velenosa. Cresce solo in Asia, la chiamano “erba spaccacuore”.
2 febbraio 2017: il giornalista russo Vladimir Kara Murza, 35 anni, del movimento dissidente Open Russia, è ricoverato d’urgenza in terapia intensiva a Mosca, e posto in stato di coma farmacologico. I sintomi sono simili al blocco renale improvviso che già lo aveva colpito nel 2015, e che aveva attribuito ad un avvelenamento. Trasferito in un ospedale all’estero, dopo che gli è stata diagnosticata una intossicazione dovuta a una sostanza sconosciuta, ora Murza vive in esilio. Era vicino a Boris Nemtsov, ex vice premier ai tempi di Boris Eltsin, poi diventato fra i principali critici del presidente Vladimir Putin, assassinato a Mosca il 27 febbraio 2015.
4 marzo 2018: l’ex agente dell’intelligence militare russa Sergei Skripal e sua figlia Yulia sono trovati riversi su una panchina della città britannica di Salisbury. Sono stati avvelenati con un agente nervino, il novichok. Entrambi guariscono dopo un lungo ricovero in terapia intensiva; guarito anche un poliziotto britannico rimasto contaminato.
30 giugno 2018: una donna rimane avvelenata vicino alla cittadina britannica di Salisbury dopo essersi spruzzata del profumo trovato dal suo compagno in un cestino della spazzatura: Dawn Sturgess muore l’8 luglio; il fidanzato, Charlie Rowley, sopravvive. Entrambi sono avvelenati dal novichok, le autorità ritengono che il falso profumo sia legato al caso Skripal. Londra accusa Mosca, identifica tre agenti dei servizi militari russi del GRU che si trovano in Gran Bretagna al momento dei fatti. Altra risata del Cremlino.
13 settembre 2018: Piotr Verzilov, attivista anti Putin, ex marito di una delle Pussy Riot e portavoce del gruppo, subisce un tentativo di avvelenamento. Ricoverato per due settimane in un ospedale in Germania, miracolosamente si salva.
Se la cava anche Karinna Moskalenko: avvocato e attivista per i diritti umani, difende tra gli altri Mikhail Khodorkovsky, Garry Kasparov e lo stesso Litvinenko; è la prima a vincere una causa contro la Federazione Russa alla Corte di Strasburgo. Il 14 ottobre 2008 il marito scopre che le hanno riempito l’automobile di mercurio velenoso.
E ora il recente tentato avvelenamento di Alexei Navalny. Plausibile che lo si sia voluto eliminare mescolando qualcosa nel tè, “l’unica cosa che beveva al mattino”, assicurano i suoi collaboratori.
Conosciuto e popolare per le sue campagne contro la corruzione, Navalny è uno dei leader di riferimento dell’opposizione a Putin. Al momento del tentato avvelenamento, è in Siberia: raccoglie materiale relativo a un’inchiesta su alcuni deputati del partito di governo Russia Unita. Sottoposto a continue pressioni, tra cui decine di condanne a pene detentive, già un anno fa aveva denunciato di essere stato avvelenato, mentre era in prigione. Tipo ostinato, Navalny: nel 2017 si ustiona gravemente gli occhi; esce dal suo studio e alcuni aggressori gli lanciano sul viso una tintura verde disinfettante.
Gli avvocati del Fondo anti-corruzione che Navalny ha creato per denunciare il malaffare della nomenklatura putiniana annunciano che chiederanno l’apertura di un’inchiesta al Comitato investigativo secondo l’articolo 277 del codice penale: «Attentato alla vita di uno statista o di un personaggio pubblico, commesso per porre fine alla sua attività pubblica o politica».
Putin, giova ricordarlo, in passato è stato un agente del KGB; ed è noto che una volta entrati nel KGB se ne esce solo da morti. Il complesso rapporto di Putin con il passato sovietico è stato spesso sintetizzato con la frase a lui attribuita secondo cui «chi non ha nostalgia dell’Unione Sovietica è senza cuore, ma chi la rimpiange è senza cervello». Significa nessun rimpianto per l’ideologia marxista-leninista, ma continuità con alcune direttrici geopolitiche che risalgono all’epoca zarista: massima valorizzazione di alleanze che derivano comunque dalla simpatia per il modello comunista (vedi il dichiarato e concreto sostegno al regime di Aljaksandr Lukašėnko in Bielorussia); e forte continuità per un certa propensione alla soppressione fisica di avversari e oppositori. Il veleno è un know-how importante, fin da quando nel 1921, Lenin ordina la creazione del Laboratorio Numero 12, nei sobborghi di Mosca, specializzato in ricerche su veleni, droghe e sostanze psicotropiche in genere.
Vero è che non solo i servizi russi fanno ricorso a questo tipo di sistemi: per esempio, nel 1997 agenti israeliani tentano di uccidere il leader di Hamas Khaled Mashal con una dose letale di Fentanyl; nel 2017 il dittatore nord coreano Kim Jong-un fa assassinare il suo fratellastro Kim Jong-nam con l’agente nervino VX.
Sarà anche per questo che il papa venuto “da quasi la fine del mondo”, Jorge Bergoglio, non si dimentica oltre quella francescana, la sua metà di astuto e diffidente gesuita, cerca di non stare mai solo, e non beve nulla se non lo fa anche chi gli sta di fronte?
D’accordo, bisogna andare indietro nel tempo; sembra che cinque pontefici siano morti avvelenati, e sicuramente lo sono stati, nell’882, Giovanni VIII; e nel 1047 Clemente II. Ed è vero: da allora sotto i ponti del Tevere, ne è passata di acqua; ma è pur vero che il 13 maggio 1981 il turco Mehmet Alì Agca attenta seriamente la vita, a piazza San Pietro a Karol Wojtyla: un pontefice che di piedi ne ha pestati almeno quelli che pesta l’attuale papa. E se è vero, come si dice a Roma, che morto un papa se ne fa un altro, la prudenza non è mai troppa.
John Emsley, esperto chimico britannico autore de “Gli elementi dell’omicidio: storia dei veleni”, spiega: “Potrebbe darsi che i veleni stiano davvero tornando di moda, ma è anche possibile che se ne parli di più perché siamo diventati più bravi a individuarli. La chimica forense è diventata così sofisticata che ora è possibile trovare tracce di veleni a livelli che fino a pochi anni fa non si credevano neanche raggiungibili. Se qualcuno muore in circostanze sospette, la chimica forense scopre presto la causa, analizzando parti del corpo e fluidi. Grazie a questi esami riusciamo a individuare le cause di morti che fino a qualche anno fa sarebbero state inspiegabili”.
La citata morte di Litvinenko è la prima a essere attribuita con certezza ad avvelenamento. Tuttavia è probabile che siano molte di più le persone ad essere state uccise. “Ti chiedi”, riflette Emsley, “quante altre persone siano state uccise dalla polizia segreta russa nello stesso modo. Ora naturalmente non è più possibile usare il polonio per un omicidio: appena si presenta una morte sospetta si cercano tracce di polonio. Se c’è una morte sospetta la chimica moderna può rintracciare sostanze fino al livello dei microgrammi, come nel caso di Litvinenko. Il veleno perfetto non esiste”.
Prima di morire, l’ex agente è riuscito a dire: “Potrai riuscire a far tacere me, ma questo silenzio avrà un costo. Le urla di protesta da tutto il mondo risuoneranno nelle tue orecchie per il resto della tua vita, signor Putin”. Si è illuso: oggi, e da tempo, il nome di Litvinenko non dice nulla a nessuno, e Putin regna incontrastato al Cremlino. Stessa cosa si può dire per gli altri casi citati. E’ con amarezza che lo si scrive: tra qualche mese non saranno molti a ricordarsi dell’“Affaire” Navalny.
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